29 febbraio 2008

Darfur, s'annoia

Darfur, solo una scatola nera
di Roberto Maurizio

Fiorella Mannoia

Il grido di dolore lanciato dalla figlia del soldato italiano, Giovanni Pezzullo, 45 anni, morto il 13 febbraio in Afghanistan per la pace nel mondo, è caduto nel vuoto. Con il passare degli anni, l’Italia è diventata sempre più insensibile. La ragazza, Giusy, 18 anni, con il suo volto candido e addolorato, aveva chiesto di mettere sui balconi italiani la bandiera nazionale, bianca rossa e verde. Solo in pochi hanno raccolto l’invito accorato di una figlia che voleva ricordare giustamente la figura del padre. Senza Pertini e senza Ciampi, l’Italia non è più la stessa.
Il dolore di una figlia non ha nulla di politico. E’ solo una scatola nera dove è possibile ritrovare, uno ad uno, tutti i ricordi di una vita, breve ma intensa, vissuta con il padre.
Tante Giusy si trovano nel mondo, e tante sono quelle abbandonate a se stesse, come quelle del Darfur.

Giusy Pezzullo

Se non ha fatto effetto sugli italiani il dolore di Giusy, come possono pretendere le Mannoia, le Guerritore, le Nava, le testimonial dell’iniziativa “Diamo voce al Darfur”, tenutasi a Roma il 27 febbraio, di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica italiana sempre più concentrata sulla quarta settimana?
E’ ora di finirla. Le cantanti facciano il loro mestiere, così come gli attori, tipo George Clooney, facciano gli attori. E’ ora che intervengono i politici che vengono pagati per questo! Il conflitto in Darfur, il 26 febbraio, ha compiuto ormai cinque anni, ed ha causato più di 400.000 morti e 2,8 miloni di sfollati e, come se non bastasse, dal 18 febbraio scorso il governo di Khartoun, secondo alcune fonti attendibili, ha ripreso i bombardamenti sulla regione, concentrando gli attacchi nei ditorni di Abu Sarraw. Negli ultimi 10 giorni, secondo i dati della Save Darfur Coalition e dell'International Crisis group, hanno perso la vita circa seicento persone, per lo più donne e bambini. Gravi anche le conseguenze logistiche e umanitarie per la popolazione. "Almeno 20.000 sono i senzatetto in quest'area – si legge in un comunicato di Italians for Darfur - molti dei quali hanno deciso di raggiungere il Ciad per trovare rifugio nei campi profughi: in Darfur non c'e' piu' posto". Secondo le testimonianze degli operatori umanitari sul terreno, da metà dicembre all'inizio di gennaio i combattimenti tra la fazione di Ibrahim di Khalil del Jem e le milizie spalleggiate dal governo posizionate a nord della capitale del Darfur occidentale, El Geneina, hanno causato atti di violenza, saccheggi e vittime per circa 160.000 persone. Altri 57.000 civili sono stati costretti a fuggire a causa dell'offensiva che ha distrutto le strutture di accoglienza delle organizzazioni non governative. Nel 2007 più di 300.000 darfuriani sono scampati alla violenza del conflitto, portando il numero totale degli sfollati a 2,8 milioni. L'aumento dei rifugiati nei campi di accoglienza ha comportato un drastico peggioramento delle condizioni di vita: gli indicatori di malnutrizione in alcune aree hanno superato le soglie di urgenza. Attualmente in Darfur sono presenti circa 13.000 operatori umanitari che portano ogni giorno assistenza a più di 4 milioni di persone".

John Lennon

La situazione in Darfut diventa sempre più drammatica e la soluzione può essere trovata solo nelle oppurtune sedi politiche. Sono rimasti in pochi a credere che i Beatles e Rolling Stones, insieme alla marcia Perugia-Assisi possano ancora attirare l’attenzione dell’opinione pubblica, soprattutto quando marciando sulle Sante zolle di San Francesco, un frate cappuccino intona “Imagine”, di John Lennon ,che immagina proprio un mondo di pace senza la religione!

Imagine there's no countries
It isn't hard to do
Nothing to kill or die for
And no religion too

27 febbraio 2008

Aung San Suu Kyi. Donna incredibile

Aung San Suu Kyi. Medaglia d’oro


L'Italia addormentata

Negli Stati Uniti, anche se in piena campagna elettorale, i due partiti contrapposti si uniscono per lanciare un messaggio in favore di Aung San Suu Kyi. In Italia, invece, continua l’oscuramento dell’"eroina birmana", che non porta voti. Il Bel Paese continua ad essere la provincia ideale di sempre. Nessuno dei due schieramenti italiani, contrapposti sulla carta, ma uniti nell’incessante spegnimento delle idee e delle proposte, riesce a pronunciare, nel loro programma, una sola parola in favore di Aung. Abbondano, invece, slogan di serie B, ma che dico, da retrocessione!Se po’ fa’” (Si può fare) e “Meno male che ci sei tu”.

La sua causa è la nostra causa

Ecco invece gli slogans, bipartisan, provenienti dai “guerrafondai americani”: “una Birmania libera e democratica”, “pace e speranza risuonino in tutta la Birmania e in tutto il mondo” . Il 15 febbraio 2008, il Senatore del Partito Democratico Dianne Feinstein e il Senatore Repubblicano Mitch McConnell, che da molti anni criticano la giunta militare della Birmania, hanno presentato una proposta di legge (con l’appoggio di altri 73 senatori) di conferire la Congressional Gold Medal a Aung San Suu Kyi. La Congressional Gold Medal non solo farà onore alla vita e all’influenza di questa donna incredibile, ma mostrerà a tutto il mondo che la sua causa è la nostra causa: una Birmania libera e democratica (…) la sua visione di democrazia, pace e speranza risuona in tutta la Birmania e in tutto il mondo (…)” ha dichiarato Senatore Feinstein. Il Congresso ha già approvato la proposta all’unanimità. Una bella notizia per Aung: speriamo, però, che non si traduca nello slogan romanesco, “Se po’ fa’.”

24 febbraio 2008

San Martino in Pensilis

San Martino in Pensilis
di Roberto Maurizio

Paese mio che stai sulla collina

San Martino in Pensilis è il paese che, per antonomasia, “sta sulla collina, disteso come un vecchio addormentato”. L’autore dei versi di “Che sarà” è Franco Migliacci, nato a Mantova, il 28 ottobre 1930, e, di colline “con la noia e l’abbandono” non credo che ne abbia viste molte, né, tanto meno risulta che abbia mai visitato San Martino. Eppure, nei suoi versi disegna, pedissequamente, questa splendida collina molisana e lo stato d’animo della sua gente costretta ad emigrare: “paesi mio, ti lascio e vado via”. Se i comuni italiani potessero avere un loro inno, credo che questa canzone di Migliacci, scritta sulla musica di Jimmy Fontana, potrebbe essere sicuramente l’Inno di San Martino. Migliacci è anche l’autore di “Volare”, “Nel blu dipinto di blu”, “C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones”, “In ginocchio da te”, “Andavo a cento all’ora”, “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte”, e anche di Heidi e Mazinga.

La piazza assolata, il Monumento ai caduti e il Palazzo Ducale

Dove il vento ti accarezza i capelli

San Martino in Pensilis si affaccia, con distaccata nonchalance, di fronte alle Isole Tremiti immerse nelle calde, salmastre e basse, ma soprattutto serene, acque di un Mare, Fratello e Nemico, situato nel Golfo di Venezia, l’Adriatico: l’insenatura più vulnerabile del Grande Padre Mediterraneo. Riceve, in inverno, il flusso benefico del gelido vento della Maiella (“majellese”) insieme alla limpida immagine della dea Maja, con tutti gli odori delle preziose erbe di montagna; in primavera il tiepido alito dei fiori nascenti dai rigogliosi campi e dagli orti malmessi della piana del Cigno, che si nutrono di miele di api, di voluptas (voluttà), castitas (castità) e pulchtritudo (bellezza); in estate, il torrido favonius (faogne) insieme allo scirocco e al garbino, che ti seccano la gola di giorno e di notte e ti fanno attendere con ansia la brezza di terra proveniente da Larino, Rotello, Montorio e Ururi, che ti lambisce i capelli senza abbassarli, li accarezza portando quel minimo ristoro che ti fa respirare quanto basta, per un attimo. E poi, in autunno, arriva l’odore della morte che si insinua di casa in casa e non lascia nessuna speranza, nessuna certezza di poter vedere di nuovo, domani, il sorgere del Sole. San Martino è il paese dove “chiove, tire u vent e suon a mort”. Ma è anche il paese della gioventù, della speranza. Non a caso, nella corsa dei carri i “partiti”, le “contrade”, le “fazioni”, prendono i nomi di: Giovani, Giovanotti e Giovanissimi.


Il carro dei Giovani (prove febbraio 2008)

Il carro dei Giovanotti (prove febbraio 2008)

Il carro dei Giovanissimi (foto di nikisan, pubblicato su Discovermolise)

Fans dei Giovanissimi (tra cui Nikisan) da Don Filippo

L’acqua di “Mazzangolle”

A San Martino, ogni luogo indica, esattamente, la presenza nelle vicinanze di un monumento, di una costruzione, di una posizione geografica precisa. Se si escludono il Palazzo ducale, il Palazzo di Pollice, le Chiese, il Municipio, il Monumento ai caduti, la Statua di Padre Pio, i due Campi sportivi e il Cimitero, tutti gli altri posti nascondano un significato alternativo . Ad esempio, "a Marine", è il luogo meno riparato del paese che designa la strada che porta verso il mare; "u Murajione", è un luogo appartato dove iniziano le prime esperienze dei giovani, "Mezzaterra", è il paese vecchio, "a Cittadelle", indica la direzione per raggiungere la Puglia, "i Stradelle", le vie disposte parallelamente che si trovano vicino al “Centro”, a "Società Operaie" è il luogo in cui gli anziani e i vecchi del paese di riuniscono per discutere e passare la maggior parte del loro tempo. Al di fuori del centro abitato, si indicano altri luoghi che nascondono un concetto che va al di là del contenuto della località. "U Calvarie" e "a Croce", oltre ad essere, rispettivamente, il primo un tempietto situato verso Ururi e, il secondo una colonna su cui è cementata una croce di ferro di notevoli proporzioni situata verso Portocannone, rappresentano anche unità di misura, essendo equidistanti dal Centro; così la stessa sorte capita anche alla "Funtanelle" e a "u Cummente", la prima una fonte d'acqua perenne che si trova verso Portocannone e il secondo una costruzione storica recentemente ristrutturata di grande valore artistico, verso Ururi. Altri luoghi, lontani dal centro del paese, costituiscono posizioni topografiche da cui trarre un insegnamento da non sottovalutare. "A Pinciere" era il luogo in cui venivano costruiti i vasi di argilla e altri utensili, ma rappresentava anche la fine che poteva subire un ragazzo che non voleva studiare ("nnanze a te, ce sta sole a Pinciera"); "Reale" era il ritorno ad un passato senza memoria (va a Riale, significava perdere i contatti con la famiglia); "Mazzangolle", la fonte perenne subito dopo "i Stradelle", era il luogo di perdizione dove si beveva il nettare della gioventù, dove si assaporava il gusto irripetibile della libidine, dove una volta che si era provato il suo immenso piacere, non si poteva fare a meno di ripeterlo. Era il luogo in cui si dichiarava eterna fedeltà al godimento, seppur fugace, provato vicino a quel flusso d'acqua sul quale si giurava il ritorno sistematico tra quelle foglie spoglie del frumento già mietuto, dove il tuo corpo era giaciuto. Da qui il detto sammarinese, ancora valido: "chi beve l’acqua di Mazzangolle, non può fare a meno di riberla". Cioè, tornerà sicuramente a San Martino.

"A Funtanelle"

"A Pinciere"
Perché San Martino?

Sicuramente, la prima parte del nome, San Martino, deriva da Martino di Tours, nato in Pannonia, l’attuale Ungheria, nel 316 o 317, probabilmente a Sabaria o, come sostengono in molti, a Pannonhalma, e morto l’8 novembre 397 a Candes (Francia) e tumulato a Tours (Francia) l’11 novembre. Secondo quanto viene riportato da Gianbattista Masciotta, nel suo libro, “Il Molise dalle origine ai nostri giorni”, Volume quarto, “Il circondario di Larino”, San Martino in Pensilis prende il nome da una chiesa, che formò il primo nucleo dell'abitato intorno al 1200. Martino di Tours (in latino Martinus) è venerato come Santo dalla Chiesa cattolica, da quella ortodossa e da quella copta. Suo padre, che era un importante ufficiale dell’esercito dell’Impero Romano, gli diede il nome di Martino, in onore di Marte, dio della guerra. Martino nasce da famiglia pagana, e viene istruito sulla dottrina cristiana quando è ancora ragazzo, senza però il battesimo. Figlio di un ufficiale dell’esercito romano, si arruola a sua volta, giovanissimo, nella cavalleria imperiale, prestando poi servizio in Gallia. E’ in quest’epoca che può collocarsi l’episodio famosissimo di Martino a cavallo, che con la spada taglia in due il suo mantello militare, per difendere un mendicante dal freddo.

La leggenda del mantello

Quando Martino era ancora un soldato, ebbe la visione che diverrà l'episodio più narrato della sua vita. Si trovava alle porte della città di Amiens con i suoi soldati quando incontrò un mendicante seminudo. D'impulso tagliò in due il suo mantello militare e lo condivise con il mendicante. Quella notte sognò che Gesù si recava da lui e gli restituiva la metà di mantello che aveva condiviso. Udì Gesù dire ai suoi angeli: "Ecco qui Martino, il soldato romano che non è battezzato, egli mi ha vestito." Quando Martino si risvegliò il suo mantello era integro. Il mantello miracoloso venne conservato come reliquia, ed entrò a far parte della collezione di reliquie dei re Merovingi dei Franchi. Il termine latino per "mantello corto", cappella, venne esteso alle persone incaricate di conservare il mantello di san Martino, i cappellani, e da questi venne applicato all'oratorio reale, che non era una chiesa, chiamato cappella. Biografi illustri di Martino sono il suo "primo" discepolo Sulpicio Severo ed anche Venanzio Fortunato con il poema "Vita di san Martino". (Fonte: Wikipedia).


Conversione al cristianesimo

Il sogno ebbe un tale impatto su Martino, che si fece battezzare il giorno seguente e divenne cristiano. Nel 356, decise di lasciare l'esercito per diventare monaco. Raggiunge a Poitiers, che si trova tra il Massiccio Armoricano e il Massiccio Centrale, oggi Prefettura del Dipartimento della Vienne e Capoluogo della Regione Poitou-Charentes, il dotto e combattivo vescovo Ilario, che aveva conosciuto alcuni anni prima. Martino ha già ricevuto il battesimo (probabilmente ad Amiens) e Ilario lo ordina esorcista: un passo sulla via del sacerdozio. Per la sua posizione di prima fila nella lotta all’arianesimo, che aveva il sostegno della Corte, il vescovo Ilario viene esiliato in Frigia (Asia Minore); e quanto a Martino si fatica a seguirne la mobilità e l’attivismo, anche perché non tutte le notizie sono ben certe. Fa probabilmente un viaggio in Pannonia, e verso il 356 passa anche per Milano. Più tardi lo troviamo in solitudine alla Gallinaria, un isolotto roccioso davanti ad Albenga, già rifugio di cristiani al tempo delle persecuzioni. Di qui Martino torna poi in Gallia, dove riceve il sacerdozio dal vescovo Ilario, rimpatriato nel 360 dal suo esilio. Un anno dopo fonda a Ligugé (a dodici chilometri da Poitiers) una comunità di asceti, che è considerata il primo monastero databile in Europa. Nel 371 viene eletto vescovo di Tours. Martino si rifiutò di vivere nella città e preferì il monastero come residenza, noto in latino come Maius monasterium (monastero grande), divenne in seguito noto come Marmoutier. Di qui intraprende la sua missione, ultraventennale azione per cristianizzare le campagne: per esse Cristo è ancora "il Dio che si adora nelle città". Non ha la cultura di Ilario, e un po’ rimane il soldato sbrigativo che era, come quando abbatte edifici e simboli dei culti pagani, ispirando più risentimenti che adesioni. Ma l’evangelizzazione riesce perché l’impetuoso vescovo si fa protettore dei poveri contro lo spietato fisco romano, promuove la giustizia tra deboli e potenti. Con lui le plebi rurali rialzano la testa. Sapere che c’è lui fa coraggio. Questo spiega l’enorme popolarità in vita e la crescente venerazione successiva. L'opera di Martino di Tours consentì di vincere l'eresia, creando le premesse per il Concilio di Nicea.Quando muore a Candes, verso la mezzanotte di una domenica, si disputano il corpo gli abitanti di Poitiers e quelli di Tours. Questi ultimi, di notte, lo portano poi nella loro città per via d’acqua, lungo i fiumi Vienne e Loire. La sua festa si celebrerà nell’anniversario della sepoltura, e la cittadina di Candes si chiamerà Candes-Saint-Martin. Martino lottò contro l'eresia ariana.

Culto popolare

San Martino di Tours viene ricordato l'11 novembre, sebbene questa non sia la data della sua morte. Nei primi secoli del cristianesimo, il culto reso ai santi spesso si collegava alla data della depositio nella tomba. Questa data è diventata una festa straordinaria in tutto l'Occidente, a causa di un numero notevole di cristiani che portavano il nome di Martino. Nel Concilio di Macon, era stato deciso che sarebbe stata una festa non lavorativa. Molte chiese in Europa sono dedicate a san Martino. L'11 novembre i bambini delle Fiandre e delle aree cattoliche della Germania e dell'Austria, partecipano a una processione di lanterne. Spesso, un uomo vestito come Martino cavalca in testa alla processione. I bambini cantano canzoni sul santo e sulle loro lanterne. Il cibo tradizionale di questo giorno è l'oca. Secondo la leggenda, Martino era riluttante a diventare vescovo, motivo per cui si nascose in una stalla piena di oche. Il rumore fatto da queste rivelò il suo nascondiglio alla gente che lo stava cercando. In anni recenti la processione delle lanterne si è diffusa anche nelle aree protestanti della Germania, nonostante il fatto che la Chiesa protestante non riconosca il culto dei Santi. In Italia il culto di san Martino è legato alla cosiddetta estate di San Martino, all'inizio di novembre. Quattromila chiese dedicate a lui in Francia, e il suo nome dato a migliaia di paesi e villaggi; come anche in Italia, in altre parti d’Europa e nelle Americhe.

Perché in Pensilis?

L'aggiunta "in Pensilis" denota la sua postura che pende dalla cima di una collina non molto elevata dal livello del mare 281 metri. L’accesso al paese, comunque, resta ripido, soprattutto se lo si raggiunge provenendo dal mare o dal fondo valle del Cigno e del Biferno. “In Pensilis”, che è stato aggiunto dopo San Martino, denotava una posizione topografica anche modestamente elevata. In Pensilis, del resto, era anche il suffisso che venne dato alla chiesa di San Salvatore, ora si chiama San Stalinslao dei Polacchi, e si trova a Roma, in via delle Botteghe oscure. S. Martino, in ogni caso, aveva bisogno d'un epònimo qualsiasi, per differenziarsi dagli altri diciannove Comuni omonimi che erano presenti nel Regno d’Italia, ciascuno dei quali ha dovuto ricorrere ad analogo espediente. Il 23 maggio 1863 il Consiglio Comunale deliberò di far seguire a San Martino, il “suffisso” in Pensilis , venne riconosciuta dal Governo con R. D. 26 luglio stesso anno, in forza del quale il Comune venne autorizzato a far seguire al proprio nome l'aggiunto "in Pensilis".

Da in Pensilis a di Castrozza,
passando per Pascoli e Carducci

San Martino di Castrozza

Vediamo di conoscere meglio i 19 paesi italiani che attualmente portano il nome di San Martino. Prima, è doveroso citare una località turistica che non è un paese, ma che è il “San Martino” più noto in Italia e nel mondo. E’ San Martino di Castrozza. Il “dislivello” fra i due “paesi” in Pensilis e di Castrozza, non risiede solo nell’altitudine, 1450 metri il “dolomitico” e appena 281 metri il “molisano”, ma nella “ricchezza” prodotta dalla famosa località turistica trentina, situata nell’alta valle del Primiero, che non “ha dignità di comune italiano”, in quanto fa parte dei comuni di Siror e Tonadico. Tra il primo, in Pensilis, e il secondo, di Castrozza, scorrono altri ben 18 paesi che si fregiano del nome di questo grande Santo, con il mantello dimezzato, con la capacità di proteggere per alcuni giorni l’Europa dal freddo (l’estate di San Martino) e, purtroppo, anche per molti anni e per secoli uomini con le corna.
Novembre
Myricae
Giovanni Pascoli
« Gemmea l'aria, il sole così chiaro / che tu ricerchi gli albicocchi in fiore, / e del prunalbo l'odorino /amaro senti nel cuore.../ Ma secco è il pruno e le stecchite piante/di nere trame segnano il sereno, / e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante / sembra il terreno. / Silenzio, intorno; solo, alle ventate / odi lontano, da giardini ed orti, / di foglie un cadere fragile. È l'estate, /fredda, dei morti. »

San Martino
Giosuè Carducci
« La nebbia a gl'irti colli / Piovigginando sale, / E sotto il maestrale / Urla e biancheggia il mar; / Ma per le vie del borgo / Dal ribollir de' tini / Va l'aspro odor de i vini / L'anime a rallegrar. / Gira su' ceppi accesi / Lo spiedo scoppiettando: / Sta il cacciator fischiando / Su l'uscio a rimirar / Tra le rossastre nubi / Stormi d'uccelli neri, / Com'esuli pensieri, /Nel vespero migrar.»
Ecco i nomi dei vari paesi italiani dedicati a “San Martino”:
1. al Tagliamento (Pn)
2. Alfieri (At)
3. Buon Albergo (Vr)
4. Canavese (To)
5. d’Agri (Pt)
6. dall’Argine (Mn)
7. del Lago (Cr)
8. di Finita (Cs)
9. di Lupari (Pd)
10. di Venezze (Ro)
11. in Badia (Bz)
12. in Passiria (Bz)
13. in Pensilis (Cb)
14. in Rio (Re)
15. in Strada (Lo)
16. Sannita (Bn)
17. Siccomario (Pv)
18. Sulla Marruccina (Ch)
19. Valle Caudina (Av)
Inoltre, con il nome del Santo finale, esistono i seguenti paesi:
20. Adrara San Martino (Bg)
21. Borgo San Martino (Al)
22. Camp San Martino (Pd)
23. Cazzago San Martino (Bs)
24. Fara San Martino (Ch)
25. Monte San Martino (Mc)
26. Vigano San Martino (Bg)

La storia di San Martino in Pensilis

Intorno all’anno mille, dopo la distruzione di Cliternia, nome punico, KLY = finita, distrutta + THR = del tutto, completamente, ma anche TER se deriva da TRY/GLY = andare in esilio; quindi Cliternia potrebbe significare "Città distrutta ed i suoi abitanti mandati in esilio", gli scampati, secondo la tradizione, andarono a costruire altri casali sulla fascia costiera tra il torrente Saccione ed il fiume Biferno, particolarmente fertile, e un Borgo che acquisisce, in seguito, l'identità di San Martino. Una leggenda popolare, mai confermata con documenti certi, racconta che dopo la distruzione di Cliternia, alcuni abitanti di questa città distrutta presero posizione presso “località Reale”, prendendo il nome di San Martino. A seguito delle incursioni frequenti che provenivano da Campomarino, gli abitanti si spostarono sulla prospiciente collina che si trovava a Nord, difesa a Sud da un Vallone e a Nord da una salita ripida (80%). Da allora due elementi sono rimasti immutati nello scorrere del tempo: il colle dal nome " Pensilis" e il nome derivato da San Martino, vescovo di Tours. Il dominio sul territorio di San Martino è legato alla più generale storia del susseguirsi delle conquiste nel Mezzogiorno d'Italia. Durante la dominazione longobarda San Martino fece parte del ducato di Benevento: è dubbio, peraltro, se fosse ascritta alla contea di Termoli od a quella di Larino, delle quali non sono note le circoscrizioni rispettive. Al tempo dei normanni appartenne alla Contea di Loritello (Rotello); e si sa, per di più, che Roberto Conte Palatino essendosi nel 1095 recato per le penitenze quaresimali a Montecassino, fece donazione alla Badia di quanto egli possedeva a S. Martino; onde l'università diventò feudo ecclesiastico. Quando morì Roberto di Bassavilla e la Contea di Loritello cessò di esistere, S. Martino doveva essere posseduta dalla Badia Cassinese; invece il Magliano, sull'autorità del Winkelmann, opina che fosse giacente nel demanio . Nel Catalogo del Borrello è menzionato quale feudatario dell'università un Amerius de S. Martino, che tiene S. Martino feudo di due militi: il che vuoi dire appunto che il feudo era stato retrocesso dalla Badia al Demanio, e da questo collocato. Il periodo svevo trascorre privo di notizie di S. Martino e così gran parte di quello angioino; e il Tria, per colmare il vuoto, mette innanzi i Conti di Montagano che ne sarebbero stati titolari. Tutto ciò è erroneo, ed infondato. Chi fosse signore di S. Martino anteriormente all'avvento di Carlo di Durazzo al trono di Napoli (1381-1386) ignoriamo. È noto però che nel 1381 il novello Re assegnò S. Martino alla propria consorte la regina Margherita: la quale si disfece poi del feudo al tempo della lotta con Ludovico d'Angiò, che contendeva la corona di Napoli al figlio di lei Ladislao. Ella, per far danaro, alienò S. Martino in favore di Ugolino degli Orsini, della potente famiglia laziale già ramificata nel Reame. L'Orsini tenne poco tempo il possesso del feudo; ed invero verso il 1400 il feudo stesso, o perchè venduto o perchè giacente al demanio, fu dato in camera alla principessa Giovanna di Durazzo (poi Regina Giovanna II): e da quel tempo ebbe le medesime vicende feudali di Guglionesi fino al 1495. Nel 1495 Andrea di Capua, duca di Termoli, ottenne S. Martino in feudo; e da tale anno, insino al 1806, l'università di S. Martino ebbe comuni con Termoli le successioni feudali e titolari, onde il lettore per averne notizie deve ricorrere alla mon. di Termoli. Un solo e lieve divario riscontrasi nelle vicende dei due Comuni, ma affatto transitorio, ed è questo: che il duca Ferrante di Capua nel 1566 vendè S. Martino per 20.000 ducati ad un Citarelli banchiere napoletano col patto del retrovendendo, del quale si avvalse poco dopo: tanto che alla di lui morte S. Martino cadde in eredità alla figlia Giulia poi sposa in casa del Balzo. Con la fine della Rivoluzione francese il Paese seguì le sorti del Regno di Napoli, facendo parte della Terra del Lavoro, fino all'unità d'Italia. Dopo l’unità il Molise e San Martino entrarono a far parte degli Abruzzi. Nel 1963 il Molise tornò ad essere regione autonoma.

Il Palazzo baronale. Il Castello


A San Martino in Pensilis ci sono vari Palazzi e Chiese incastonati nel centro storico che hanno origini chiaramente medioevali. Ci sono piccole case che si affacciano su stradine molto strette e palazzi di famiglie nobili con piazze scorci incantevoli. Svetta il Castello baronale, appartenuto anche a Ferdinando di Capua, duca di Termoli, che vi aveva fissato la sua dimora abituale. Esso risale al periodo normanno (sec.XII) e ciò è sottolineato sopratutto dalla presenza di archi gotici in alcune sale del palazzo. Si accede con un'alta e "construtta sciula di breccioni", la rampa. Dopo di essa una volta vi era un ponte levatoio che copriva il fosso di sicurezza, oggi non più presente. Sul lato che da verso la "marina" vi è una bella terrazza con finestroni ad arco molto caratteristici. Il Palazzo baronale, chiamato volgarmente il Castello, è di antica costruzione, ma, secondo alcuni, forse non anteriore al secolo XV. Ha un aspetto maestoso e dal superbo loggiato a settentrione permette la visione del prossimo mare, mentre dall'altro ad oriente l'occhio spazia nella vallata sottostante. L'edificio occupa la superficie di 1600 metri quadri, e sorge nella zona più elevata dell'abitato, a capo della parte antica del medesimo. Da un manoscritto del 1590 -- che fino a pochi anni fa era stato conservato fra i libri del locale “Convento di Gesù e Maria” -- si apprende che "Trovasi in dicta terra di S. Martino un antico palazzo in forma di castello ch'è di proprietà et pertinenzia del nostro Ill.mo Signore D. Ferdinando de Capua quarto duca di Termoli. Dicto palazzo è in forma di commoda et insespugnabile fortezza, et è posto nel luogo più sublime di dicta terra. Ha a guardia del lato che è più esposto all'assalto delli nemici, un forte castello quadrato, con contromurali a scarpa, attaccato alle mura di dicta Terra. Si entra nel palazzo con alta e ben costructa sciulia di breccioni (vale a dire rampa), dopo la quale viene il ponte levatoio che cuopre il fosso di sicurezza, che gira tutto intorno al fabbricato. Passato il ponte si trova il primo portone del cortile con sua ritirata e difesa per merli e merloni di pietra massiccia et altre opere ben munite per improvvisi assalti. Dalla corte si passa ad un secondo portone che mette nelle stanzie tutte commode e ben constructe et assai numerose". I restauri e le variazioni, cui l'edificio andò soggetto nel tempo, hanno cancellato le tracce dell’omogeneità dello stile e della sua vetustà, per cui non esiste più niente di ciò che l'anonimo cronista accenna. Lo stabile si appartiene, attualmente, in parte ai Signor Tozzi che l'acquistarono nel 1858, in parte al Conte Cattaneo erede della famiglia feudale del luogo.

Curiosità

L'ufficio postale venne aperto il 12 aprile 1871; 'ufficio del telegrafo il 14 giugno 1875. Le istituzioni economiche e di beneficienza sono: Monte Frumentario. Non esiste più come tale, il suo capitale essendo stato liquidato ed investito sul Debito Pubblico per la rendita di L.176. Banca Agraria. Istituita nel 1914, conta oltre 200 soci. Agenzia del Consorzio Agrario Cooperativo Molisano. Istituita sempre nel 1914. Illuminazione pubblica a petrolio, dal 29 aprile 1883.

Le chiese

S. Martino è pertinenza della diocesi di Larino, fin dalle proprie origini. Comprendeva in tempi lontani tre parrocchie intitolate a San Martino, S. Maria in Pensili, e S. Pietro apostolo. Nel Sinodo diocesano del 1642 il vescovo mons. Caracci soppresse le prime due, e ne concentrò i beni in quelli della terza, la quale da allora è l'unica. Il protettore del Comune è S. Leone dei benedettini, che per tradizione vuolsi concittadino, e la cui festa è celebrata il 2 maggio con la caratteristica corsa dei buoi, il 30 aprile. Le chiese sono: S. Pietro apostolo. Distrutta la vetustissima chiesa preesistente di tal titolo, la presente fu costruita in sito più adatto, restaurata radicalmente nel secolo XVIII, e decorata con gusto nell'occasione della traslazione del corpo di S. Leo, che dal 1728 vi riposa in una cassa d'ebano con pareti di cristallo sotto la mensa dell'altare maggiore. L'edificio è ad una sola nave; ed il suo interno misura m. 38 di lunghezza, m. 12 di larghezza, e m. 16 d'altezza. Nella facciata prospiciente sulla piazza è murata una lastra di marmo che porta scolpito un epitaffio dell'epoca romana: lastra di cui avevano fatto gradino per la porta piccola dell'edificio stesso, e che deve l'attuale situazione ad ordini di mons. Tria. Nella notte dal 19 al 20 marzo 1893 un fulmine determinò l'incendio della fabbrica; onde molti arredi ed oggetti preziosi andarono in cenere, e perduta andò pure una bella tela di Niccolò Melanconico raffigurante "La Vergine adorata dai protettori locali". Nel 1728 la parrocchiale fu eretta dal Tria in Collegiata insigne, con dodici canonici aventi le insegne della cappa o zamparda, e della mozzetta. Recentemente, per lo zelo dell'attuale arciprete, la chiesa è stata ampliata di alcuni ambienti per uso di sagrestia e di archivio parrocchiale. S. Martino. È detta pure di S. Giuseppe, o del Purgatorio, e probabilmente è la più antica delle chiese locali, poiché una rozza lapide a caratteri gotici, murata nel campanile, ricorda che nel 1410 "Hoc opus fieri fecit D. Petrus Robertus Archipresbyter". Nel 1675 dov’è essere restaurata dalle fondamenta; sennonché i lavori non pregredirono ed anzi furono interrotti e ripresi poi nel 1728, allorchè potè fruire dei materiali di risulta della demolizione delle antiche chiese di S. Maria in Pensili e S. Giuseppe, le quali erano state abbattute perché cadenti. Nel 1734 la chiesa venne riaperta al pubblico nella sua nuova partitura in tre navate. Nel 1909 ne furono rinnovati il pavimento e le decorazioni alle pareti. È sede della Confraternita del Monte dei Morti, la cui fondazione risale ai primordi del secolo XVIII. S. Maria in Pensili. - Edificata negli esordi del secolo XVIII in prossimità e sostituzione dell'antica cappella omonima, nella quale fu custodito il corpo di S. Leo in un'urna di marmo dal 1300 al 1728. È ad una sola nave, e sede della Confraternita del SS. Sacramento. Madonna delle Grazie. Sorge poco oltre mezzo chilometro dall'abitato, e fu fondata dalla devozione dei cittadini. Il quadro che raffigura la titolare attira annualmente numerosi pellegrinaggi dai paesi circostanti.Di recente, è stato inaugurato un monumento a San Pio da Petralcina. L’affetto e la devozione dei sammartinesi per Padre Pio risale fin dai suoi primi anni di predicazione. La Maestra Troilo, zia Maestra, fu tra le prime che ebbe una possente fede per il padre di Petralcina, a tal punto di chiamare il suo primogenito Pio. Ma, Padre Pio, come del resto altri Santi, vedi San Gennaro a Napoli, hanno un rapporto conflittuale con i credenti che vogliono i miracoli a tutti i costi anche quando sono inutili. L’odio è il rovescio della medaglia dell’affetto. Padre Pio sa chi nasconde in se i peccati più gravi, il più doloroso di tutti è la superbia.


Il Convento


Il Convento com'era prima della ristrutturazione


Il Convento oggi

Ad un chilometro a valle dell'abitato, lungo la strada provinciale che conduce ad Ururi, vi è il Convento dei Frati minori e i resti della Chiesa di “Gesù e Maria”, oggi in restauro quasi terminato. Questa Chiesa contiene qualche altare di pregio ed ha un bel soffitto in oro zecchino. A fianco ad essa vi è il Convento fondato nel 1490 per uso dei frati minori osservanti. E' spazioso e sta per essere recuperato alla cittadinanza, con un uso ancora da destinarsi. Il Convento di Gesù e Maria fu edificato nel 1490 per volontà del signor Martino de Rita, cittadino sammartinese che ne finanziò la costruzione in onore di suo fratello Pietro. La Provincia Monastica di Sant’ Angelo di Puglia era allora sotto la dominazione di Federico III° d’Occidente ed il Pontificato di Innocenzo VIII°. Martino de Rita morì prematuramente ed il Convento fu completato solo dieci anni dopo da Vincenzo e Ferdinando De Capua, duchi di Termoli, con il consenso del Vescovo di Larino, Iacopo Petrucci. Danneggiato irrimediabilmente da una tempesta, nel 1640, fu completamente ricostruito grazie ai proventi che provennero dalle elemosine dei fedeli. Benché non sia particolarmente ricca la bibliografia in cui è citato, ne descrivono la struttura alcuni dei testi fondamentali della storia molisana. Oltre al Tria, ne parla Frate Ludovico Vincitorio nel “Sacro ritiro dei Frati Minori” e Padre Doroteo Forte nel suo “Movimento Francescano”: “ Ha il Convento un solo chiostro tutto istoriato dalla vita di San Francesco con pitture e affreschi, fatte nel 1850 da Pietro Pomella di San Marco in Lamis; trenta stanze adibite a seminario di novizi, parte per uso di comunità di panni e di libri, il resto con le officine a piano terra, per la comodità della famiglia religiosa.....Circondato di molti ettari di terreno, in parte adibiti ad orto e tredici versure coltivati L’orto, murato e adiacente al Convento, conteneva alberi da frutto e un rigoglioso vigneto. ...” Con l’Unità d’Italia, nel 1866, la confisca dei beni ecclesiastici attribuì la proprietà della struttura al Comune e nel 1902 il Vicario Generale, padre Fleiming ne decise la chiusura per carenza di personale. Tre anni dopo, il Ministro Provinciale, padre Filippo Petracca ne consentì la riapertura. Nel decennio successivo, un progressivo deterioramento della struttura indusse il Vicario Provinciale padre Agostino Cimino a chiuderlo definitivamente. Era il 1913 e da quel momento il Convento fu abbandonato a se stesso, benché rappresentasse una presenza forte nella comunità sammarinese e continuasse a suscitare l’interesse di studiosi e storici dell’arte. Oggi, ristrutturata la Chiesa e il chiostro, torna alla vita, testimone possente e austero della storia di questo squarcio di Italia contadina a metà tra il mare e la terra, tra futuro e antico.


La Croce, la Madonnina, la Fontanella e “Fratellò
n!”

A Croce

"A Madonnine"

"A Fontanelle"

"A curva di Fratellon!"
Una volta, negli anni ’50, ’60 e ‘70, per recarsi a Termoli occorreva percorrere la strada provinciale che lambiva, prima la Croce, poi la Madonnina e poi la Fontanella. Una strada percorsa dagli asini, dai buoi, dai contadini, che, ovviamente, sceglievano l’itinerario meno faticoso. D’un botto, per omaggio alla modernizzazione a tutti i costi, venne tracciato un altro cammino, molto più ripido, ma la distanza San Martino – Termoli era stata accorciata di ben 467 metri. Veniva perciò cancellata la strada con tanta cura scelta dagli asini. Nel contempo, anche la Madonnina “sfioriva” e la Fontanella dichiarata “oggetto superfluo, da cancellare, da dare in pasto al degrado e alla non curanza”. Per quanto possa ricordare, cercherò di raccontare cosa avveniva quando i “motorizzati” (Vespa 125, Topolino, Fiat 500, Fiat 600) di allora percorrevano questo tragitto. Il guidatore della vespa, con il proprio bambino situato tra il sedile e il manubrio, con dietro gli altri due rampolli, avvinghiati fra loro e il conducente, passando davanti la Croce, si levava il capello con una mano e con l’altra cercava di frenare la frenetica corsa raggiunta dopo la discesa, 40 km all’ora; prima di raggiungere a cospetto della madonnina, rallentava, dava il suo capello al bimbo intrappolato tra il sedile e il manubrio, e proprio davanti alla statua si faceva il segno della croce, come tutti i passeggeri della Vespa 125. Arrivati davanti alla Fontanella, soprattutto durante le giornate più calde, si scendeva e si “abbeverava” l’equipaggio. La stessa metodologia, un po’ più aggraziata, veniva realizzata dai “motorizzati” più “granarosi”. Non appena davanti la Croce, il conduttore e capo famiglia, rallentava e si segnava, così come tutti i passeggeri. A pochi metri di distanza, il rito si ripeteva e, insieme al segno di Croce veniva intonata l’Ave Maria. Meno accaldati, erano pochi gli equipaggi delle autovetture che si fermavano alla Fontanella, ma intonavano lo stesso la canzone, ma che bella fontanella e l’acqua e bella…Croce, Madonnina, Fontanella, e Fratellon! Subito dopo la Fontanella, immersa in un lussureggiante susseguirsi di canne di bambù, la strada si incartava in una serie di curve, la più pericolosa delle quali era quella quasi ad U, che non permetteva di intravedere il veicolo che procedeva in senso opposto. Uno dei tanti giorni di mare, la truppa su due ruote della 125, stava cercando di raggiungere la spiaggia, dopo aver meticolosamente “onorato” la Croce, la Madonnina e la Fontanella, quando dalla curva U, “sfrecciò” a grande velocità, invadendo temporaneamente la corsia opposta, una Vespa 150 con a bordo un adulto e due bambini. L’impatto venne evitato per poco, quando dal conducente dell’altro scooter si levò un grido: “Fratellon”! Il pilota dell’altro “bolide” era un “collega” del conducente della 125. Da allora, quella curva, ormai oggi affrontata solo da vecchi asini, ha preso il nome di “Fratellon!”.
Cucina sammartinese

San Martino in Pensilis risente soprattutto della sua vicinanza con la Puglia, ma ha legami intensi e affettivi smisurati con i cugini dell’Abruzzo, ed è influenzato dalle altre regioni meridionali con le quali ha condiviso centinaia di anni della sua storia, Campania, Basilicata e Calabria. Con la Sicilia i rapporti sono un po’ più freddi, forse a causa dello Stretto! Esiste, comunque, un reciproco rispetto siculo-molisano-sammartinese. Mio nonno fu uno tra i primi a intervenire in soccorso delle popolazioni, come soldato dopo il tremendo terremoto di Messina del 1908. “Culturalmente”, però, i contatti più serrati i sammartinesi li hanno sviluppati con la Puglia, l’Abruzzo, la Basilicata e la Calabria. Da dove si evincono queste relazioni privilegiate? Dalla cucina.Il Lazio e la Campania devono essere escluse per problemi latteari. In queste Regioni si usa la Bufala che a San Martino e in quasi tutto il Molise non esiste come priorità di lavorazione del latte. Alla Puglia, all’Abruzzo, alla Calabria e alla Basilicata ci uniscono i seguenti alimenti: la Pigna (una specie di Panettone di Pasqua), i Cavicioni (dolci con fragranze mediterranee), i Caragnoli (dolci a base di miele, simili a quelli arabi), i Scartellate (meno dolci dei Caragnoli), i Mostaccioli (con il cioccolato), i Tarallini (con tanto zucchero sulla pasta frolla). A parte le Lumache (ciammaich), gli asparagi (i sparen), i Tacquinell (pasta romboidale con acqua e farina), i Piccillat (biscotti con il finocchio) e le patate sotto la cenere del braciere, che si trovano anche nelle altre Regioni, i veri prodotti tipicamente sammartinesi sono: i spaghett ca mijca (piatto tipico di San Giuseppe), i Torcinelli, e la Pampanella.
Torcinelli

I torcinelli non sono una vera invenzione e specialità esclusiva di San Martino. E’ la loro preparazione e il loro trattamento che li differenziano dagli altri produttori, soprattutto pugliesi. Fino a poco tempo fa, quando la qualità della vita dal punto di vista di partecipazione emotiva era superiore e il rispetto delle norme igieniche inferiori, passare per le stradelle di San Martino e sentire l’odore dei torcinelli che stavano bruciando sui carboni ardenti, nascosti da un fumo che spiccava il volo sempre più in alto quanto più grasso e aceto colava sulla fiamma, era come assaporare il dolce profumo del Mediterraneo. In un sol momento, ti apparivano dinanzi gli achei, i romani, i turchi, gli ebrei, i croati, i georgiani.Ma cosa sono i torcinelli? Sono budella del piccolo intestino d'agnello, alla quale vanno aggiunte animelle, trippa, mesentere di agnello, aglio, prezzemolo, peperoncino piccante, pepe, origano e sale. Le budella e la trippa vengono lavate con acqua, sale e farina di mais e poi lessate. La trippa, insieme a qualche budellina, viene tagliata a pezzetti e condita con sale, peperoncino, rosmarino, aglio e origano ed avvolta nel mesentere . Intorno al mesentere, così riempito, vengono avvolte (attorcinate) le budella. La cottura normalmente viene fatta alla brace o al forno, ma è possibile cucinarli anche in altri modi.
La Pampanella

Il vero e proprio prodotto Doc sammartinese è la Pampanella, carne di suino semigrassa completa di cotenna insaporita con aromi naturali ed abbondate peperoncino finemente macinato e cotta al forno. La materia prima è la carne di maiale del peso di 60 - 70 Kg. La carne viene tagliata a pezzi sul ceppo e portata sul pianale di acciaio dove viene condita con sale, aglio e peperoncino. Così preparata, viene messa in un contenitore di acciaio dove rimane per 6 - 7 ore in ambiente fresco. Viene cotta nel forno a legna a temperatura di 300° C, per due ore circa. Il nome Pampanella deriva dal fatto che anticamente, sia durante che dopo la cottura, essa veniva avvolta in foglie di vite (pampini). La vera ricetta della Pampanella si trova su “Il Gambero Rosso”, al quale l’è stata fornita da Giovanni La Vecchia, ma è difficile trovarla. Ci ripromettiamo di pubblicarla il più presto possibile.A San Martino i produttori di Pampanella sono numerosi. Quelli più accreditati sono La Vecchia e Muccillo. Senza esagerare, la produzione verace della Pampanella e come quella dello Champagne e della Coca Cola. Esistono segreti che si tramandano da padri in figli. De gustibus non disputandum est, diceva Giulio Cesare. Ma, vi assicuro che chiunque sia il produttore, basta però che sia sammartinese, sapete quello che mangiate e proverete un gusto inimitabile!



Giovanni La Vecchia

La Famiglia Muccillo


Le specialità sammartinesi si possono assaporare presso il ristorante "Don Filippo" . Pampanella e Torcinelli: tra gli Ulivi e le Palme

Le foto sono di Roberto Maurizio

17 febbraio 2008

Federico Caffè

Omaggio a Federico Caffè

di Roberto Maurizio
In questa foto, il Professor Caffè sta avvolgendo, con cura, un pezzo di carta e lo frantuma fino all'inverosimile. Era un suo gesto, un suo tic, per "rilassarsi" e, nello stesso tempo, per pensare. Ricordo, nei tanti mesi di preparazione della mia tesi, in "Politica Economica", trascorsi con lui, le attese fatte dietro la sua porta, il suo "avanti!", pronunciato con tono imperioso, l'acre profumo che riempiva la stanza, come per riaffermare, con forza, la sua scelta irrinunciabile di volersi immergere nella dolce fragranza di single, il suo pullover blu scuro, la sua cravatta blu scura, il suo volto scuro, che soltanto di tanto in tanto si illuminava, strappando un sorriso dai denti che solo in pochi al mondo sanno confezionare. Non era solo un vezzo l'arrotolamento dei pezzettini di carta: era il suo modo di raccontarsi. Voleva immergersi nel profondo delle piccole cose, per iniziare con loro un percorso che lo avrebbe condotto, per mano, fino al raggiungimento dell'immensa cascata di grandi pensieri, di brillanti idee, di colossali innovazioni. In pratica, era la base su cui costruire il suo mondo ideale, fondato sul reciproco rispetto, sulla solidarietà e sulla libertà. Era sua convinzione che bastasse fare interagire i suoi polpastrelli con le piccole linguette di carta inaridita, per ridare ai suoi listelli e alle sue strisce una nuova linfa e un nuovo vigore, per trasformarli, quindi, in bocciòli di rose, sempre in frenetica attesa di poter "rifiorire nel loro pieno splendore".

Il Prof. Caffè durante un convegno della Confindustria

Sono trascorsi 7.613 giorni da oggi, 17 febbraio 2008, dalla scomparsa del Prof. Federico Caffè e ancora rimane un mistero il suo allontanamento dall’appartamento di Monte Mario, via Cadlolo, 42, il 15 aprile 1987, dove lasciò solo i suoi documenti e suoi occhiali. Come ex studente dell’insigne Professore, voglio rendergli omaggio, scrivendo questo "articolo" come riconoscimento alla sua attività di educatore e per fornire una mia "versione" dei fatti che non sempre coincidono con quelli “ufficiali”. Il Maestro, il Grande Professore Caffè, aveva tanta voglia di vivere e di divertirsi, non aveva, quindi, nessun desiderio di "farla finita".

1. "Le forze dell’ordine e gli studenti del Prof. Caffè hanno fatto del tutto per ritrovarlo". Questo è quanto viene affermato comunemente. Non so come abbiano agito le “forze” dell’ordine, ma che tutti i suoi studenti abbiano partecipato attivamente al suo ritrovamento è sbagliato. Infatti, io non sono stato nemmeno interpellato. Forse avevo qualcosa da raccontare. Nel 1981, mentre dirigevo di fatto come Direttore e Capo Redattore la rivista “Cooperazione” del Ministero degli Affari Esteri (ruolo che non mi è stato mai riconosciuto pubblicamente), invitai il mio ex Professore, Caffè, a partecipare a un “Primo Piano” dal titolo «Verso il nuovo ordine monetario internazionale». (rubrica che curai, per l’occasione, con Rainer S. Masera, ex ministro del Bilancio del Governo Dini, attualmente Professore presso l’Università Europea di Roma, e, purtroppo, oggi indagato nel processo Parmalat). Il pezzo inedito del Professore, di appena 689 parole, «Un richiamo al realismo» (che pubblichiamo integralmente su “Articoli di Stampa, Scuola e Vita”), non è mai stato menzionato dai “suoi discepoli” più “promettenti”. Ero entusiasta di aver coinvolto il mio ex insegnante in un progetto editoriale così imponente per me. Avevo coinvolto Mahbub Ul Haq (Jammi, Kashmir, 22 febbraio 1934 – New York, 16 luglio 1998), economista pakistano dell’Undp, uno dei fondatori della Teoria dello Sviluppo Umano; Paolo Leon, attualmente, professore ordinario dell’Università degli Studi di Roma Tre, Facoltà di Economia “Federico Caffè”; Robert Triffin (Flobecq, Belgio, 5 ottobre 1911 – Ostend, Belgio, 23 febbraio 1993), professore di Economia belga, passato alla storia come il più tenace oppositore degli Accordi di Bretton Woods con il suo “Triffin’s dilemma”; Lamberto Dini, allora Direttore generale della Banca d’Italia, carica subito dopo quella dell’allora Governatore Carlo Alberto Ciampi, Vice Presidente del Comitato Monetario della Cee e Governatore per l’Italia nella Banca Asiatica di Sviluppo; Fabrizio Saccomanni, l’attuale Direttore generale della Banca d’Italia, carica subito dopo quella del Governatore, Mario Draghi; Giannandrea Falchi, attualmente Capo della Segreteria particolare della Banca d’Italia. Tanto per comprendere l’integrità morale di Caffè, ma anche le sue esagerazioni, quando gli portai a luglio il numero di aprile 1981 della rivista “Cooperazione” n° 19, uscito come al solito in ritardo, dopo essere stato regolarmente pagato, il Professore inveì contro di me perché non l’avevo avvertito che tra i partecipanti c’era qualcuno con il quale “non era molto in sintonia”. Rimasi di sasso: Ul Haq? Ma è fantastico. Paolo Leon, ma Paolo adora Caffè. Non mi disse mai il nome. Dini non poteva essere, era il Direttore della Banca d’Italia con la quale il Professore lavorava regolarmente. Rainer S. Masera, allora, era un giovane e promettente Professore di Scienze delle Finanze e Diritto Finanziario presso l’Università di Bergamo, Responsabile del settore internazionale nel Servizio Studi della Banca d’Italia e Membro supplente per l’Italia del Comitato monetario della Cee, a meno di improbabili capacità precognitive di Caffè, occorre scartare anche il futuro inquisito per il crack Parmalat. Per esclusione, arrivai a Giuseppe Petrilli (Napoli 24 marzo 1913-13 maggio 1999), allora Professore universitario ordinario dell’Università di Roma, Senatore della Repubblica, Presidente internazionale del Movimento europeo e Vice-Presidente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. Petrilli fu uomo politico, noto soprattutto per avere ricoperto le cariche di Commissario europeo agli Affari Sociali (1958-1960) e poi di Presidente dell’Iri per quasi vent’anni (1960-1979). Laureato in Matematica ed in Statistica, iniziò la sua carriera in ambito universitario, per poi passare alla presidenza dell’Inam. Politicamente vicino ad Amintore Fanfani, nel 1958 fu il primo italiano a ricoprire la carica di Commissario europeo, nella Commissione Hallstein. La “sfuriata” del Professore me la ricordo nitidamente. Tutto ciò, solo per raccontare un episodio nel quale emergono gli aspetti più “istintivi” di Caffè. Pochi anni prima, ero tornato a salutarlo e gli avevo illustrato le mie scelte: professore di un istituto tecnico superiore e giornalista freelance. Sulla mia prima scelta fu categorico: l’insegnamento nelle scuole superiori va “lasciato” alle donne, è un part time che non merita di essere intrapreso. In effetti, il Professore aveva ragione. In quel tempo, gli insegnati non arrivano a dedicare nemmeno 100 giorni all’anno per l’insegnamento: 14-18 ore settimanali, tre mesi di vacanze in estate, Natale, Pasqua, scioperi e quant’altro. Però, il fratello del Professore, Alfonso, insegnava in un istituto superiore! Lettere.

Un'immagine di Caffè, pubblicata da "Chi l'ha visto", che non rende grazia al Professore, che, se avesse saputo prima di finire su questo programma televisivo, non avrebbe scelto giammai la strada di farsi ritrovare in Italia

2. Nato a Pescara il 6 gennaio 1914 (non dimostrava affatto l’età che aveva, sembrava molto più giovane) il Prof. Caffè è sempre stato definito “un musone, un solitario con tanti problemi”. Non è affatto vero. Conobbi per la prima volta il Prof. Caffè, nel 1969. Era appena arrivato dall’India a piedi, dopo aver percorso circa 7.000 chilometri, un amico di mio fratello che aveva conosciuto a Nuova Delhi. Il personaggio indiano, Ramsay, era finito sulle prime pagine dei giornali dell’epoca. Veniva a piedi per incontrare il Papa e per proseguire, poi, verso New York, alle Nazioni Unite, per portare il suo messaggio di Pace e Sviluppo. Una pagina dimenticata del tanto bistrattato ’68. Il messaggio era dolce e lineare: non violenza e sviluppo per tutti i popoli del mondo. Non c’era droga, non c’era avversione politica, si predicava solo veramente la pace, intesa come possibilità di realizzare progetti di sviluppo nell’allora India sottosviluppata. Il messaggio non venne raccolto da nessuno, se non dal Prof. Caffè. E questa potrebbe essere una strada da seguire nella sua scomparsa. Un uomo già allora definito tetragono nei suoi sentimenti, accolse a braccia aperte un indiano sconosciuto, presentato da uno studente tra i tanti e gli fece tenere una conferenza presso l’aula magna dell’università da poco inaugurata. Questo suo sentimento non è stato mai messo in risalto dai suoi “allievi” più “stretti” che dovevano per forza far emergere la forza di un marxista a tutti i costi. Dagli atti della Sapienza, Facoltà di Economia e Commercio, dovrebbe risultare la conferenza di Ramsay sponsorizzata dal Prof. Caffè, fatta da lui stesso approvare dal Consiglio di Facoltà, e, mi ricordo, con il voto contrario dall’allora Preside, un professore di Matematica.

3. Dopo questa performance, per alcuni anni non vidi più il Professore, anche perché ero intento a superare gli altri esami. Finalmente, scelsi la tesi. Economia e Commercio è una strana Facoltà, dove convivono due anime: la prima è quella del ragionerie laureato, un commercialista immerso tra le carte e tra i bilanci, una persona con i piedi per terra, che fa di conto per far risparmiare le aziende in tasse, imposte e contributi e dall’altra i “sognatori”, gli amanti della macro economia, della politica economica, del modo in cui risolvere i problemi di miliardi di persone. L’errore fondamentale è che questo iato spacca in due il laureato in Economia e Commercio, due facce della stessa medaglia. Senza la conoscenza della prima non si capisce bene la seconda e viceversa. Il dottore in Economia e Commercio è un laureato azzoppato. Io scelsi la seconda strada, quella della capacità di costruire e ricercare nuovi progetti e idee. Mi avvicinai per la tesi al Prof. Caffè e gli dissi che ero intenzionato a comprendere a fondo il meccanismo che genera l’inflazione e che avevo sentito parlare, da alcuni colleghi - amici latinoamericani, un peruviano e due fidanzatini dell’Ecuador, di una scuola economica dell’università di Santiago del Cile. Era la cosiddetta “Scuola Strutturalista”. Presentai la scaletta della tesi che prevedeva lo studio, oltre quello strettamente di politica economica, anche di filosofia, storia, medicina, matematica. Caffè rimase entusiasmato dall’idea e di diede come “supervisore” il Prof. Ezio Tarantelli, allora “assistente” del Prof. Rei di Economia monetaria. Il Prof. Tarantelli mi diede parecchi input. Ricordo che contattai, tramite Tarantelli, diversi economisti, anche per lettera. I grandi economisti italiani mi snobbarono, mentre ricevetti una lettera manoscritta da un professore che insegnava allora in Brasile, Paul Singer. Gli incontri mensili con il “maestro” riservavano sempre una qualche sorpresa. Il tempo che ti concedeva era centellinato, le spiegazioni veloci e puntuali, il modo con il quale mi parlava sempre attento e professionale. Arrivò poi la laurea. Mi laureai in Politica economica con la tesi “L’inflazione strutturale” l’11 luglio 1973 (108/110, per la cronaca, ma avevo un curriculum abbastanza “travagliato”, e il conseguimento della mia laurea lo debbo decisamente a Caffè e a Vittorio Marrama, ma soprattutto al Prof. Alessandro Costanzo di Statistica I e II). Subito dopo la laurea, invitai il Professore a partecipare a due “uscite particolari” insieme ad altri tre altri novelli laureati che Caffè aveva seguito con particolare cura. Ero fiero di appartenere a quel “drappello”, formato da due 110 e lode che sarebbero poi andati a lavorare in Banca d’Italia e un 100, un simpatico studente con qualche “difetto” di troppo, come di troppo era la sua voglia di vivere e di sognare. Nessuno ci crederà. La prima uscita “fuori le mura universitarie” del manipolo di studenti e il Professore fu in occasione della visione di un film che allora veniva definito quasi hard. La protagonista era Laura Antonelli e il film era appena uscito e si chiamava “Malizia”. Il Professore aveva una particolare ammirazione per l’Antonelli. Dunque, l’esimio Professore, non rifiutò l’invito per andare al cinema e accettò ben volentieri di vedere un film “poco impegnato”. Non sarà stato questo il vero carattere del Professore che nessuno vuole vedere? Lo stesso atteggiamento “scansonato” lo ebbe anche in occasione della cena in viale Paroli, sempre con la stessa squadra, in un noto ristorante. Era completamente diverso da quanto voleva fare apparire quando “riceveva” gli studenti nella sua stanza al settimo piano di via Del Castro Laurenziano, 9. La sua “segretaria” di quegli anni, una “romanaccia” simpatica sapeva benissimo che si trattava di un uomo stravagante, ma allo stesso tempo “normale”, come tutti. «Da qualche tempo, mi disse la “segretaria” sempre pronta a parlare, si fa a piedi sette piani. Ed ha ragione. Tre volte sono rimasta rinchiusa dentro quella trappola”. La “segretaria bionda” sdrammatizzava tutto e riduceva qualsiasi evento in momenti per sorridere. Caffè, pur con la sua “prosopopea”, era molto legato alla “sua segretaria bionda”. Ma andava più d’accordo con l’altra, quella bruna, molto più professionale e con molti problemi familiari. «E’ sempre presente, mi diceva, sembra che come un operaio voglia timbrare il cartellino». Insomma, il Professore, aveva due vite, una ufficiale e composta e l’altra più “smoderata” e con tanta voglia di divertirsi. Ecco perché sostengo che non è possibile che il Professore abbia deciso di suicidarsi, non avrebbe avuto la forza e non avrebbe avuto la motivazione, almeno fino al 1981.


4. Dunque, il Professore, il 15 aprile 1987, si presume che esca in punta di piedi dalla sua casa romana di via Cadiolo 42, a Monte Mario, indossi pantaloni grigi, giacca scura e leggero soprabito blu, tipico di certe nottate primaverili romane rinfrescate dal venticello, lasci sul tavolo, in bella vista, orologio, passaporto, libretto degli assegni, portafoglio e chiavi di casa, chiuda alle spalle la porta di quella stanzetta ammobiliata dell'indispensabile, senza alcun cenno di civetteria, senza neppure quadri o arazzi alle pareti, al di fuori della riproduzione di un crocefisso di Giotto, scivoli all'esterno come un'ombra, senza che nessuno lo possa notare e faccia perdere ogni traccia. Aveva 73 anni. Solo intorno alle sette, il fratello Alfonso nota il letto vuoto. I due fratelli abruzzesi, sin da giovani avevano deciso di non sposarsi, vivendo sotto lo stesso tetto e dividendo per decenni, abitudini, discussioni, progetti. Una sorella che viveva a Pescara, e i loro nipoti più volte, negli ultimi anni di vita accertata dello zio, avevano insistito affinché zio Federico e zio Alfonso si trasferissero sull'Adriatico. D'altronde, il primo non aveva più i suoi impegni fissi all'Università. E anche Alfonso Caffè aveva lasciato l' Istituto "Massimo" dei gesuiti dov'era stato professore di lettere. Insieme avevano visto morire l'ormai anzianissima madre. Insieme avevano accompagnato all'ultima dimora anche la tenera tata Giulia, che da lungo tempo aveva consolidato il suo ruolo di fiduciaria di famiglia. Ad aggravare certi suoi stati d'animo la tragica perdita in un paio d'anni di tre discepoli-Doc. Non c'era conoscente il quale non sapesse sino a che punto Federico Caffè avesse sofferto e pianto nel 1985 davanti alla bara di Ezio Tarantelli, massacrato dalle Brigate Rosse. E non c'era amico il quale non avesse raccolto la sua angoscia davanti al destino che aveva troncato la vita di Fausto Vicarelli in un incidente stradale e di Franco Franciosi in un lettino d'ospedale, ucciso dal cancro.

5. A Torino, quattro giorni prima della scomparsa del Professore, muore Primo Levi: Caffè ne rimane sconvolto, ma critica il modo, plateale e straziante, in cui lo scrittore si è tolto la vita.

6. Che fine ha fatto, dunque, Federico Caffè? Secondo me e vivo e ci ascolta. Un uomo “grande” come lui, non poteva accettare l’idea della morte senza sepoltura. Credo che non stia in Italia, tantomeno, in un convento. La sua fuga non è stata organizzata da nessuno. L’ha pensata e l’ha studiata lui, ne aveva le possibilità. Io l’immagino camminare sull’Himalaya, al di sopra delle nuvole e al di sopra di ogni sospetto. E’ difficile credere che a nessuno più interessi la sua fine, dopo tutto quel grande bene e amore che ha dato all’Italia. Il distacco non è stato suo, ma gli altri si sono distaccati da lui. Abbandonato a se stesso, preferisce oggi a 94 anni, aspettare la morte fuori dall’Italia, che non ha saputo ricompensare i suoi sacrifici. Dovunque sia, adesso, ha la possibilità di vedere questo mio articolo sul mio blog, e sono convinto che prima o poi si farà vivo.
7. Il Tribunale di Roma, con sentenza del 30 ottobre 1998, ha dichiarato la morte presunta di Federico Caffè.

Note biografiche
Federico Caffè, nato a Pescara il 6.1.1914, si è laureato con lode in Scienze Economiche e Commerciali presso l'Università di Roma nel 1936.Assistente volontario alla cattedra di Politica economica e finanziaria dal 1939, nell'anno accademico 1946/47 ha vinto una borsa di studio per un soggiorno presso la London School of Economics.Libero docente di politica economica e finanziaria nel 1949 nello stesso anno è stato nominato assistente incaricato alla cattedra di Scienza delle Finanze di cui era titolare G. Del Vecchio.Vincitore nel 1954 del primo concorso a cattedra di Politica economica e finanziaria tenutosi dopo la fine della guerra, è stato professore straordinario della stessa disciplina a Messina passando poi all'insegnamento di Economia politica a Bologna ed infine è stato chiamato a Roma nel 1959 come professore ordinario di Politica economica e finanziaria presso la facoltà di Economia e Commercio.Nel 1984 gli è stato conferito il diploma di prima classe, con medaglia d'oro, per i benemeriti della scuola, della cultura e dell'arte.Dal 1970 è stato socio corrispondente dell'Accademia nazionale dei Lincei ed è divenuto socio nazionale nel 1986.Alla sua lunga e intensa carriera universitaria si è affiancata un'altrettanto lunga e prestigiosa carriera pubblica che lo vide per un breve periodo capo di gabinetto del Ministro della Ricostruzione Meuccio Ruini nel Governo Parri. Non meno rilevanti sono stati gli incarichi che gli vennero affidati come funzionario del Servizio Studi della Banca d'Italia dove venne assunto nel 1937. Nel 1954, con la sua nomina a professore straordinario, si concluse il rapporto di lavoro e venne nominato consulente del Governatore della Banca d'Italia, incarico che mantenne sino al 1969. Inoltre dalla data della sua istituzione nel 1965 e sino al 1975 ha diretto l'Ente Einaudi per gli studi monetari bancari e finanziari.Ha curato con grande erudizione e gusto filologico la raccolta di opere di F. Ferrara, di F. S. Nitti e di L. Einaudi nonché significative raccolte di saggi di autori italiani e stranieri. La sua dedizione all'Università e gli incarichi ricevuti non lo hanno mai allontanato da un impegno civile che lo ha visto antifascista negli anni della guerra, a contatto con le forze democratico-liberali e azioniste nel dopoguerra, vicino al riformismo cattolico di Cronache Sociali di Dossetti all'inizio degli anni '50 e infine vigile e critico consigliere del sindacato unitario.Era piccolo di statura, riservato, mite ma capace di terribili sfuriate, lettore instancabile, amante della musica, erudito, storico del pensiero economico italiano.

Intervento del Presidente Ciampi in occasione della commemorazione del Prof. Federico Caffè all’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma, il 24 maggio del 2001
"Federico Caffè era uomo di straordinarie qualità, di indole solitaria ma estremamente disponibile al dialogo, accoppiava orgoglio e modestia. In lui dominava il rigore morale che esercitava in primo luogo verso se stesso e che si manifestava nel rispetto profondo, sostanziale e formale, nei confronti del prossimo, soprattutto il prossimo minore, materialmente o intellettualmente bisognoso".
"Persona generosa, animato da un profondo anelito sociale, spendeva se stesso senza limiti, salvo poi a ritrarsi con subitanea freddezza se avvertiva nel suo interlocutore insincerità d'accento".
"Privilegiava il rapporto con i giovani, i quali, pur sapendolo insegnante severo, ne subivano il fascino. Apprezzavano in lui il grande economista; sentivano in lui lo spessore umano, che ne faceva uno straordinario educatore".
"Se, come è vero, educare significa trasmettere la propria persona, chiunque, coetaneo o più giovane, abbia avuto con Federico Caffè occasione di dialogo, sente che qualcosa di lui oggi è parte viva di se stesso".
Carlo Azeglio Ciampi

Leggere l'articolo "inedito" di Federico Caffè pubblicato nel 1981 sulla rivista "Cooperazione": "Un richiamo al realismo" e l'intervento del Prof. Guido Rey su "Federico Caffè: profilo di un maestro". I due articoli sono pubblicati su "Articoli di Stampa, Scuola e Vita".

12 febbraio 2008

Agenda Darfur. Antologia

Florilegio Darfur. Piccola “Antologia”

di Roberto Maurizio


Avremmo voluto dedicare al Darfur una particolare attenzione, citando fonti, dati statistici, rappresentazioni della realtà, per comprendere perlomeno il 10% del dramma che vivono le popolazioni di questa regione africana. Un’impresa ardua, fallita sul nascere. Appena ti accosti al problema vieni sommerso da ideologie, fanatismi, confusione. Ognuno tira l’acqua al suo mulino. Alla fine, siamo stati messi di fronte al solito dilemma biforcuto: abbandonare o pubblicare? Abbiamo scelto, come vedete, la seconda ipotesi, pur sapendo che poca acqua aggiunge al mulino della verità. Abbiamo raccolto, qua e là, notizie sul Darfur. La nostra “Antologia” è solo un primo passo per poter capire meglio in seguito da che parte è la verità. Ci scusiamo per la lunghezza assurda e per la mancanza di citazione immediata delle fonti. Ma la nostra è stata un scelta. Da Sylvie, siamo passati all’Agenda per il Darfur ed ora vi offriamo questo florilegio. (Data la lunghezza, il "pezzo" è stato trasferito su www.robertomaurizio.it.

Agenda Darfur. Il Sudan

Agenda Darfur. Il Sudan


di Roberto Maurizio




Il Sudan

Il Sudan, Jumhuriyat as-Sudan in arabo جمهورية السودان,, o Giumhuriyetal Al Sudan, è uno Stato africano. E’ il più grande paese dell’Africa per estensione 2.505.810 km2, ha una popolazione di 39.148.162, 15 abitanti per km2, confina con nove paesi (Ciad, Egitto, Etiopia, Libia, Repubblica Democratica del Congo, Uganda, Repubblica Centrafricana, Kenia) ed è bagnato dal Mar Rosso con 600 chilometri di costa. Il nome del paese africano deriva dall’arabo Bilad as-Sudan, che vuol dire “paese dei neri”, poiché gli arabi così chiamavano i territori confinanti col Sahara meridionale, le cui popolazioni erano appunto nere. La capitale, Khartoum, conta 1.974.780 ab. / 2005. La lingua ufficiale è l’arabo, considerato il più “puro” di tutti gli altri, quello che più si avvicina all’arabo del Corano. E’ indipendente dal 1° gennaio 1956 ed è membro dell’Onu dal 12 novembre 1956. La valuta è, dal 1° gennaio 2007, la sterlina sudanese, pari a circa 3,20 Euro. Il Prodotto interno lordo è di circa 84.700 milioni di dollari, che colloca il paese al 62° posto nel mondo, quello pro-capite è di appena 2.520 dollari l’anno, che fa scendere il paese al 133° posto nella classifica mondiale, e l’Isu (Indice dello sviluppo umano dell’Undp) è pari a 0,526, che fa sprofondare il paese al 147° posto. Rispetto all’Italia, ci sono due fusi di differenza. La nostra Ambasciata si trova a Karthoum P.O. Box 793 - Street 39 - Tel. 0024911 471615/6/7 Fax 471217 Strada 39 - Block 61 - Khartoum 2 P.O.Box 793 Khartoum Sudan Tel.: +249 1 83471615/6/7 Fax: +249 1 83471217 e.mail: ambasciata.khartoum@esteri.it Cellulare di emergenza: +249 9 12306050 sito web: http://www.ambkarthoum.esteri.it/. L’ Ambasciatore è Lorenzo Angeloni. Il Nunzio Apostolico è Mons. Leo Boccardi. Omar Assad Ahmad al-Bashir è Capo di Stato e di Governo della Giunta militare. Il Sudan è, nella fantasia “metropolitana”, l’Africa selvaggia, mai sopita, mai ferma, mai uguale a se stessa. Impenetrabile dalle convenzioni, continua ad essere questo immenso paese nel quale nemmeno le cifre riescono ad emergere e vengono utilizzate, di volta in volta, per giustificare e accreditare, non la scientificità del dato, ma l’ideologia o le proprie convinzioni da cortile. Non sto alludendo solo alle cause che hanno scatenato le guerre che hanno martoriato il paese, sulle cause occorre ancora riflettere e aspettare i responsi degli storici, ma alla semplice lettura dei dati geografici.

Il Nilo

Il Sudan è uno Stato situato, secondo alcuni, nell'Africa Nord Orientale e, secondo altri, nell’Africa Centro Orientale. Questa discrepanza non è puramente “semantica”. C’è un risvolto ideologico. Se dico Nord Orientale, l’avvicino all’Arabia Saudita. Se dico Centro Orientale, l’avvicino al Ciad. E’ come il Messico. Questo paese geograficamente appartiene al Nord del mondo (al di sopra dell’Equatore), culturalmente e storicamente è un paese del Sud America.
Con i suoi due rami che confluiscono a Khartoum, il Nilo Azzurro e il Nilo Bianco, e i loro tributari, il Nilo caratterizza no in modo deter­minante la morfologia del paese. Il Nilo Bianco scorre dal confine ugandese fino al­la confluenza con l'altro braccio, formando così il Nilo vero e proprio. Il Nilo Azzurro, il maggiore per portata di acque, nasce nell'altopiano etiopico e attraversa la parte centrorientale del paese. Tra gli affluenti del Nilo il più importante è l'Atbara, che nasce a sua volta nell'altopiano etiopico. Gran parte del territorio sudanese consiste di una piatta pianura.
La storia
Il Sudan ha una storia che affonda le sue radici nel paleolitico. Segnali di antropizzazione sono esistenti in molte parti del paese. A Singa, località nella wilaya del Nilo Azzurro, fu scoperto un cranio di Homo sapiens boscimanoide, mentre manufatti rudimentali sono stati ritrovati in più zone, con la notevole industria del ciottolo di Nuri. La regione settentrionale del Sudan attuale nell'antichità era conosciuta anche come "regno della Nubia", e la sua civiltà fiorì essenzialmente lungo il corso del Nilo, tra la prima e la sesta cataratta. I regni che si susseguirono furono grandemente influenzati dal vicino Egitto faraonico, ed a loro volta vi fecero sentire il loro influsso. In realtà, infatti, i confini tra gli antichi regni egiziani e sudanesi fluttuarono frequentemente, e una buona parte di quello che ora è il Sudan del Nord era, in antichità, indistinguibile dall’alto Egitto. La Nubia giunse a comprendere Assuan. In età romana il Fezzàn fu visitato da Giulio Materno, mentre Nerone inviò alcuni centurioni in esplorazione lungo il Nilo, ma questi si fermarono prima di raggiungere il Sudan. Gli esploratori arabi invece vi penetrarono e ne restano le testimonianze di el Bekri, Edridi e Ibb Battuta, raccolte da Leone Africano, che visitò l'area del Bornu e compendiò le sue ricerche e quelle degli arabi.

Islam e Arabi

Il cristianesimo fu introdotto nel Sudan nel terzo o nel quato secolo, ma già intorno al 640 fece la sua comparsa l’Islam, proprio quando già tre dei regni che componevano lo stato erano stati convertiti al cristianesimo. La coesistenza fra le due fedi sarebbe rimasta accettabilmente pacifica sino al XIV secolo. Il dominio economico nel Sudan feudale di quei secoli a cavallo del millennio fu presto assunto da una classe di mercanti arabi. I più importanti tra i regni che si susseguirono in seguito furono il regno di Sennar e quello di Makuria.

I britannici

A partire dal 1820 il Sudan venne a cadere sotto il controllo dell’Egitto, quando con l'appoggio dei Turchi, Muhammad Alì, Wali d’Egitto, inviò un esercito agli ordini di suo figlio Isamil Basha e di Muhammad Bey per occupare il Sudan orientale. La conquista fu completata con la sottomissione della regione meridionale del paese nel 1839; con l'ingresso dei conquistatori, si sviluppò un intenso commercio di schiavi.

I Padri Comboniani

Nel 1857 giunsero in Sudan alcuni missionari cattolici fra i quali Daniele Comboni, che vi fondò la comunità missionaria dei Padri Comboniani.

Mahdi e Gordon

Il leader religioso Muhammad ibn Abballa, l’autoproclamato Mahdi (il messia), tentò negli anni ’80 del XIX secolo di unificare le tribù del Sudan centrale e di quello occidentale. Guidò una rivolta nazionalista contro il dominio egiziano, che culminò con la presa di Khartoum nel 1885, nel corso della quale trovò la morte anche Gordon, il famoso generale britannico. Lo stato mahdista sopravvisse fin quando Khalifa, successore di Mahdi, non fu definitivamente sopraffatto nel 1898 dalle forze anglo-egiziane guidate da Lord Kitchener nella nota battaglia di Omdurman. Nel 1899 gli inglesi costituirono il paese vinto in protettorato (formalmente anglo-egiziano in base ad un trattato poi ratificato nel 1936) e divisero il Sudan in due distinte colonie, il Sud ed il Nord, situazione che permase invariata fino al 1956.

Le licenze
Poco dopo (1903) il governo locale iniziò una assegnazione di "licenze" ai missionari che richiedevano di poter entrare nel paese, definendo i territori nei quali sarebbe stato loro consentito di insediarsi. La zona settentrionale nubiana rimase esclusa da tali assegnazioni e restò prevalentemente musulmana.
Umma e Ashqqa'

Nel 1943, allentandosi la pressione britannica a causa del conflitto mondiale, sorsero due partiti spontanei di inclinazione nazionalista, il partito Umma e il partito Ashiqqa' (quest'ultimo di ispirazione islamica), entrambi principalmente riferentisi al Sudan settentrionale.
1947

Nel 1947 si tenne la conferenza di Juba con la quale le due parti del paese concordarono per la riunificazione ed il Sud venne ammesso alla rappresentatività parlamentare.
1953

Nel 1953 il regime di protettorato fu abolito grazie ad un accordo anglo-egiziano ispirato a principi di autodeterminazione dei popoli. Immediatamente dopo, a novembre, si tennero elezioni generali per il rinnovo dell'Assemblea legislativa dalle quali nel gennaio successivo sortì la legittimazione di Al-Azhari a capo del governo. Uno dei primi atti fu l'istituzione di un Comitato per la sudanizzazione, nel quale però fu notata una sporporzionatamente esigua rappresentanza del Sudan meridionale.

Il Sudan, tra conflitti e speranze
Il Sudan è un paese martoriato dalla guerra e riassume in sé molte caratteristiche dell'area del Mar Rosso, con la presenza di elementi di cultura a tratti tribale, a tratti araba e musulmana. All'interno del suo territorio, come accade spesso in Africa, convivono molti gruppi etnici, e questa convivenza è eredità del periodo coloniale, quando i territori delle nazioni africane erano definiti a tavolino, senza rispetto dei popoli e delle culture. Nel paese è possibile notare una differenza netta, tra un nord arabo e musulmano e un sud prevalentemente composto da popolazioni nere, alcune delle quali praticano culti animasti, mentre altre seguono la religione cristiana.Le ragioni dei lunghi conflitti che insanguinano il paese sono da ricercare, forse, anche in questi presupposti. La comunità internazionale, guidata dagli Stati Uniti, è da lungo tempo impegnata a cercare una soluzione pacifica, ma il numero dei morti e dei rifugiati continua a salire. La lotta per il controllo dei giacimenti petroliferi, com’è facile immaginare, apre nuovi scenari. Il conflitto tra nord del paese prevalentemente arabo ed un sud cristiano animista è alimentato da una guerra civile che dura da più di 40 anni. Nel 2004, la condizione del Sudan è stata definita dalla Comunità Internazionale "la più grave situazione umanitaria esistente". Molti gli sforzi fatti dalla Comunità Internazionale e numerosi anche i tentativi di organizzazioni Africane (tra cui l'Unione Africana) di portare la guerra civile ai tavoli di pace. Grande il problema dei guerriglieri ribelli contro un governo del nord che ha imposto, sin dagli anni '80, il duro regime della Sharia, la legge araba. A contrapporre infatti l'egemonia del GoS (Government of Sudan) due le principali fazioni ribelli: lo SLM/A (Sudan People's Liberation Movement/Army) e il Jem (Justice for Equality Movement) che continuano a battersi per liberare il sud dal regime imposto.

La crisi umanitaria più grave del nuovo secolo

Il conflitto tra nord del paese prevalentemente arabo ed un sud cristiano animista è alimentato da una guerra civile che dura da più di 40 anni. Nel 2004, la condizione del Sudan è stata definita dalla Comunità Internazionale "la più grave situazione umanitaria esistente". Molti gli sforzi fatti dalla Comunità Internazionale e numerosi anche i tentativi di organizzazioni Africane (tra cui l'Unione Africana) di portare la guerra civile ai tavoli di pace. Grande il problema dei guerriglieri ribelli contro un governo del nord che ha imposto, sin dagli anni '80, il duro regime della Sharia, la legge araba. A contrapporre infatti l'egemonia del GoS (Government of Sudan) due le principali fazioni ribelli: lo SLM/A (Sudan People's Liberation Movement/Army) e il Jem (Justice for Equality Movement) che continuano a battersi per liberare il sud dal regime imposto.
I conflitti interni

Fin dall'indipendenza dal Regno Unito, proclamata dal Parlamento nel dicembre 1955 ed ottenuta nel 1956, la politica interna è stata dominata da regimi militari che, secondo una visione pressoché unanime degli studiosi, avrebbero favorito governi a orientamento islamico e privilegiato il Sudan settentrionale. I conflitti interni e la guerra civile, che hanno dominato la scena interna dal 1955 al 1972 e che hanno origine antecedente all'indipendenza, nacquero dal contrasto fra le forze governative settentrionali e le forze Anya Nya che rivendicavano l'autonomia della parte meridionale del paese. Nel 1957 fu proposta da parte dei nord-sudanesi una costituzione che eleggesse l'Islam a religione di stato e la lingua araba a lingua ufficiale dello stato. L'anno successivo i sud-sudanesi abbandonarono i lavori dell'assemblea costituente una volta compreso che l'ipotesi di una federazione fra Nord e Sud del paese non sarebbe stata accolta.

La "rivoluzione di maggio"
L'opera dei missionari stranieri fu interrotta nel 1964 da un imprevisto decreto di espulsione generalizzato; le tensioni crebbero sino a far montare in autunno una ribellione nota come "rivoluzione d'ottobre" e lo stato di agitazione permase gravissimo per lungo tempo. Pochi anni dopo, ormai nel 1969, Gaafer Mohamed Nimeiri avrebbe attuato un colpo di stato detto "rivoluzione di maggio", con l'appoggio dei comunisti.
Hec

Nel 1972 un accordo di pace firmato ad Addis Abeba garantì al sud una sorta di autonomia tramite la costituzione di un'assemblea regionale con facoltà di elezione del Presidente dell'Alto Consiglio Esecutivo (HEC), soggetto però alla conferma da parte del Presidente della Repubblica. Il primo presidente dell'assemblea regionale del sud fu Abel Alier. Parte dell'accordo prevedeva l'assorbimento delle forze Anya Nya nelle forze governative. L'anno successivo la costituzione del Sudan avrebbe confermato i punti principali dell'accordo.
Manifestazioni e scioperi

Il 12 aprile 1978 il governo centrale e le opposizioni, guidate dal Fronte Nazionale, sottoscrissero un accordo congiunto di rappacificazione, ma le tensioni si spostarono su un fronte socio-economico, e l'anno successivo fu caratterizzato da manifestazioni e scioperi, per il miglioramento delle condizioni economiche e per il riconoscimento di diritti fondamentali come la libertà di stampa.

Tre governi regionali

Il trasferimento a nord di milizie ex-Anya Nya, la decisione del Presidente Nimeiri di dividere il governo del sud in tre governi regionali e soprattutto la decisione di introdurre le sanzioni previste dalla Shari'a nel codice penale incontrarono l'opposizione degli ufficiali del sud e portarono all'ammutinamento di Bor nel 1983 che diede i natali alla SPLM/A Sudanese People's Liberation Movement/Army. La guerra civile ricominciò. Dal 1983 gli effetti delle carestie successive alla guerra hanno provocato oltre 2 milioni di morti ed oltre 4 milioni di rifugiati.
I militari
Il 30 giugno 1989 un colpo di Stato destituì il presidente Sadeq al-Mahdi eletto nel 1986 e portò al potere un regime militare guidato dal generale Omar Hassan Ahmed al-Beshir e dominato dal Fronte nazionale islamico (NIF). In seguito al colpo di stato il conflitto contro lo SPLM/A si intensificò ed anche le opposizioni politiche nord-sudanesi parteciparono in armi.
Nel 1996 l'ONU irrogò delle sanzioni per il supposto coinvolgimento del Sudan nell'attentato al presidente egiziano Mubarak dell'anno precedente. Le sanzioni consistevano in un embargo aereo internazionale e vennero seguite da "sanzioni" autonomamente irrogate dagli Stati Uniti, che pretesero un embargo generale.

1998

La guerra civile si protrasse senza tregua e nel 1998, anno in cui si tenne anche un referendum costituzionale, a causa di una siccità particolarmente pesante, nel Sud scoppiò una carestia di luttuosa gravità. L'anno successivo una assai tenue mitigazione delle difficoltà venne dall'apertura delle esportazioni di petrolio, ma la lotta politica restò incandescente e al-Beshir proclamò lo stato di emergenza; il Sud divenne vittima di regolari bombardamenti aerei. L'oppositore Hassan al-Turabi, già procuratore generale e leader del partito Popular National Congress (PNC), fu arrestato nel febbraio del 2001, dopo che la sua formazione aveva avuto alcuni abboccamenti con il SPLA per un coordinamento delle opposizioni. Stante la permanenza della carestia, e dato l'ormai ingente numero di vittime della guerra civile, vi furono svariati tentativi internazionali volti a raggiungere un accordo fra le parti, nessuno dei quali ebbe però successo fino al 2002.


2002
Nel giugno del 2002, con la collaborazione di John C. Danforth, ambasciatore statunitense ed incaricato speciale delle Nazioni Unite, iniziarono delle trattative di pace fra il governo sudanese e il SPLM/A. Il presidente dell'Uganda Yoweri Museveni riuscì a fare incontrare per la prima volta Bashir e John Garang, leader carismatico delle forze ribelli. Uno degli accordi fu la concessione di maggiore indipendenza al sud del paese e l'autodeterminazione dello stesso tramite un referendum.
Il petrolio


Una delle principali cause del conflitto è da molti osservatori rintracciata nella presenza di ingenti risorse petrolifere nella parte meridionale del paese.