12 luglio 2010

Giorgio Alpi, padre di Ilaria

Un saluto a Giorgio Alpi, padre di Ilaria


di Roberto Maurizio


Si è spento ieri, 11 luglio 2010, a Roma, all’età di 86 anni, Giorgio Alpi, padre di Ilaria, giornalista uccisa in Somalia 16 anno or sono. “Stampa, Scuola e Vita”, che ha sempre avuto un atteggiamento “riflessivo” sull’uccisione della giornalista di Rai 3 nel 1994, esprime il suo cordoglio alla moglie di Giorgio Alpi, padre di una giovane e brava lettrice ed interprete dei suoi tempi. Quello che non ho mai capito, come mai una ragazza giovane, senza esperienze, fosse stata mandata allo sbaraglio. Se la Rai conosceva la pericolosità della pista che stava seguendo Ilaria, perché l’ha lasciata sola? Perché non l’ha fatta proteggere? Come un agnello sacrificale, Ilaria ha dato la sua vita per seguire un “inbroglio internazionale”. Caduto il muro di Berlino, ridotte a zero le forze della Prima Repubblica, che bisogno c’era di trafiggere la Cooperazione allo sviluppo. Il Dipartimento per la cooperazione allo sviluppo, durante gli anni della Guerra Fredda, non poteva fare nient’altro di quello che gli veniva imposto dagli Stati Uniti. Perché mai gli Usa si sono disinteressati della distruzione di un “bastione” sul quale veniva realizzata la politica estera italiano nel Terzo Mondo? Perché Henry Kissinger non ha mai parlato di Ilaria Alpi? Ormai, l’Italia, dopo il 1989 non aveva più voce in capitolo. Mani Pulite stava mietendo vittime a destra e a manca ponendo sotto i suoi riflettori la Cooperazione italiana. Con un tratto di penna, manette e spade venne stritolato e buttata l’acqua sporca con il bambino. Ma perché mai, Ilaria ha voluto contribuire con le sue inchieste a buttare il bambino, gettando fango sulla Cooperazione italiana? Dopo 16 anni non sono state trovate prove concrete della corruzione e del male affare del Ministero degli Esteri italiano. Giorgio, padre di Ilaria, ha dato, come la figlia, la sua vita per cercare di trovare la “verità”. Il suo impegno per trovare le ragioni e i veri colpevoli della barbara uccisione di una bellissima creatura si è spento senza risultati. Resterà comunque indelebile nella storia di questa “povera” Italia, l’amore di un padre per la figlia fino alla fine del suo ultimo respiro. Giorgio ha finalmente ritrovato la luce di Ilaria, ma non è riuscito a dipanare le tenebre che nascondono ancora troppi lati oscuri. Grazie Giorgio, grazie Ilaria.



Per rendere omaggio a Ilaria e a Giorgio, “Stampa, Scuola e Vita”, riproduce un “articolo” di Alessio Candido, pubblicato il 21 marzo 2010. E’ una specie di Analisi del Testo, quello che cercheremo di effettuare.



Titolo: Ndrangheta, rifiuti, servizi: un rosario di silenzi da Bosaso alla Calabria

Iniziamo con una critica. Ma che c’entra la Ndrangheta con la Cooperazione allo sviluppo? Bosaso, dov’è? Il probabile lettore già si spaventerebbe. Ok. Passiamo al testo.

Somalia, 1994. Fase conclusiva dell’operazione Restore Hope (questa era solo americana, di Clinton). La missione della Nazioni Unite (Operation Continue Restore Hope) avrebbe il compito ripristinare la sicurezza locale e favorire l’eventuale reinsediamento di un governo legittimo (legittimato da chi?). Ma la carestia continua a mietere vittime (come se fosse una novità per la Somalia), la forza multinazionale (Onu) riesce a malapena a assicurare un cordone di sicurezza attorno agli aiuti umanitari, mentre il potere rimane saldamente in mano ai “signori della guerra” (legati mani e piedi ad Al Qaeda). La popolazione è stritolata nella guerra fra clan e stremata dalla fame (mentre prima!). Nel frattempo, all’ombra della cooperazione internazionale, la Somalia è divenuta crocevia di traffici di ogni tipo: armi, rifiuti tossici, scorie nucleari. Traffici ai quali i caschi blu non sono estranei. (Questa accusa dovrebbe essere documentata. I Caschi Blu collusi con i traffici di armi- come se l’Onu armava Al Qaeda- rifiuti tossici, come se quattro camorristi potessero avere un potere in Somalia, scorie nucleari, incredibile, l’Onu contro l’Aiea che è una sua agenzia).

È questa la pista che Ilaria Alpi e Miran Hrovatin stavano seguendo prima di essere uccisi il 20 marzo 1994, a Mogadiscio. (Ma come? Un’operazione così pericolosa assegnata a due poveri giornalisti che avevano a mala pena un tacquino e una penna, una telecamera da quattro soldi, registratori di merda, senza telefoni satellitari, senza nessun ausilio esterno, come i sateletti americani). Solo loro, l’autista e l’uomo della scorta con cui viaggiavano no. Miracolosamente, escono illesi dall’agguato. Miran e Ilaria sono invece freddati a 300 metri dalla casa di Giancarlo Marocchino, noto faccendiere, frequentatore dei militari e, si dice, dei servizi segreti italiani (quali servizi segreti? Chi erano i responsabili?). Fu lui il primo ad accorrere (certo l’agguato era stato effettuato proprio davanti casa sua).

Un mistero targato Bosaso

Nei giorni precedenti, Marocchino aveva fatto scattare l’allarme fra i reporter italiani “Andate via, stanno preparando qualcosa contro di voi” (chi erano i reporter italiani presenti, sono stati sentiti, hanno confermato questa tesi?). Ma i due giornalisti italiani non c’erano. Erano a Bosaso (finalmente, Bosaso, ma dov’è a quanti chilometri da Mogadiscio?) ad intervistare il sultano Abdullahy Moussa Bogor (ma chi cazz’è?) a proposito della flotta di pescherecci Shifco, donata dalla Coooperazione italiana alla Somalia (come, quando e perché?), del sequestro (adesso ti sequestrano pure la flotta di Rutelli e di D’Alema) di una di queste navi, e – forse – di qualche traffico di armi e rifiuti fra Italia e Somalia (dati, fatti e non parole).

Non fu un viaggio casuale. Un appunto trovato, dopo l’omicidio, sulla scrivania di Ilaria Alpi nel suo ufficio alla Rai (il direttore non sapeva nulla, incredibile, mandare a morire una giovane giornalista per quattro soldi) dimostra che Ilaria seguiva da tempo questa pista «Bosaso, Mugne, Shifco, 1.400 miliardi (fondi Fai) di lire…dove è finita questa impressionante mole di denaro»? (Ma quale impressionante mole di denaro, circa 700 milioni di euro, meno di una vincita al superenalotto, i fondi della cooperazione italiana erano notevolmente alti, daremo i dati successivamente, esisteva la Biblioteca dell’Università somala che era il fiore all’occhiello della nostra cooperazione che valeva molto di più).

E che Ilaria avesse intenzione di andare a Bosaso, lo ha confermato anche Alberto Calvi, l’operatore Rai che l’aveva accompagnata in Somalia per ben quattro volte (la prima nel 1992, le rimanenti nel 1993): «Non ci andammo prima perché impegnati a seguire i fatti di cronaca a Mogadiscio e perché non avevamo soldi e scorta a sufficienza; c’era il rischio di lasciarci la pelle», ha spesso ricordato Calvi, dopo la morte di Ilaria (poveri giornalisti senza soldi che vogliono fare anche gli 007, qualche anno prima, ero andato con la mia radio a transistor alla Rai per intervistare un esponente dell’Onu. La mia “vecchia” radio valeva appena 150 mila lire, e mi dissero, in Rai, di tenerla sotto controllo).

Ma a dirlo è anche Massimo Loche, l’allora direttore del Tg (quale?): “Quando mi chiamò da Bosaso, il 17 marzo, sentii Ilaria molto eccitata perché aveva realizzato un buon servizio”, ha dichiarato Loche agli investigatori della Procura della Repubblica di Torre Annunziata (a bene!). In una seconda telefonata al Tg3, fatta il 20 marzo ’94, e riferita dal collega Flavio Fusi, Ilaria avrebbe detto: “Ho delle cose grosse (quali?), ho un ottimo servizio”. Poche ore dopo veniva uccisa (non c’è nessun nesso fra causa ed effetto).

Un crocevia di traffici all’ombra della cooperazione


A Bosaso, secondo Ilaria succedeva qualcosa di strano. E ci aveva visto giusto (ma fi che cosa sta parlando?). Nel 2004, interrogato dagli investigatori della Procura di Asti, Marcello Giannoni, titolare e socio della Progresso Srl di Livorno, che si occupava di smaltire rifiuti tossico-nocivi, ha rivelato che «in Somalia sono arrivati sicuramente rifiuti tossici di tipo industriale e, forse, di tipo sanitario. Dove? Nella zona di Bosaso. Lo so con certezza. Sono stati impiegati, come materiale di riempimento, durante i lavori di realizzazione del porto e della strada (fino a prova contraria, la cooperazione internazionale, come quella italiana costruisce strade, che c’è di strno?) che va a Garoe». E nel girato di Miran arrivato in Italia, quella strada c’è (per forza l’avevamo costruita noi). Un lungo filmato di quella strada che unisce Bosaso a Garoe (e che c’entra la Cooperazione?).

Secondo la Procura di Torre Annunziata invece, di mezzo c’erano anche armi provenienti dall’Est Europa e portate in Somalia da Hercules C-130 italiani (ok, i C-130 italiani atterravano sulla strada Bosaso-Garoe). A indicare questa pista (di atterraggio?) è stato soprattutto l’imprenditore Francesco Corneli, ritenuto vicino ai servizi segreti siriani (siriani? Ma che cazzo ci facevano là), nonché ex collaboratore esterno del Sisde (un porco, insomma), ascoltato più volte nel giugno 1997. Agli investigatori, Corneli ha fornito dei dettagli inediti: secondo lui, per fronteggiare la guerra civile che lo vedeva perdente, il dittatore somalo Siad Barre, tra il 1990 e il 1991, chiese ai suoi referenti socialisti in Italia di procurargli «armamenti di alta tecnologia» (che c’è di strano se un paese amico chiede al suo alleato di procurargli mezzi e strumenti per difendersi?).

Invece, il 7 agosto 1997 un altro testimone, Marco Zaganelli, dichiarava: «Nel periodo in cui sono stato in Somalia, io e tanti altri abbiamo notato con cadenza settimanale la presenza di aerei militari non identificati del tipo Hercules che scaricavano armi in Somalia» (embé, ma dove andavano le armi?).

Ilaria, Miran e un lungo rosario di morti

Ma questo Ilaria non l’ha potuto scrivere. Quando Giannoni, Corneli e i tanti altri che hanno aggiunto tessere al mosaico di Bosaso, hanno parlato, lei era già morta (ma quali le accuse precise?). Né è dato sapere cosa Ilaria avesse scoperto. Nonostante in Somalia fossero presenti gli uomini del contingente italiano, quelli del Sismi comandati da Luca Rajola Pescarini ed anche un nucleo dei Carabinieri del Tuscania, dopo l’omicidio, nessuna indagine è stata avviata (quali indagini potevano fare su un territorio straniero? Con quale autorità? Perché la Rai non si è mossa?). Nessuno ha interrogato i testimoni oculari (perché la Rai non mando uno straccio di giornalista sul posto?), raccolto i bossoli (non c’erano bidelli pronti), effettuato misurazioni e rilevamenti balistici (ma con una guerra in corso e senza soldi, come cavolo facevano i somali? Perché la Rai non ha mosso il culo per Ilaria? Possibile che non c’era nessuno pronto a fare un reportage? Perché non è stato informato il Ministero degli Esteri e il Dipartimento per la cooperazione allo sviluppo e la rivista Cooperazione che aveva fior fiori di giornalisti legati alla sinistra. Perché non mi hanno contattato, come giornalista del mensile Cooperazione? Ilaria, quante volte ti ho pensato. Quante volte ho detto, ma che c’entra questa con la Cooperazione italiana, non sapevi nulla, non sapevi nemmeno perché eravamo in quel posto desolato. Poi mi hanno detto che conoscevi l’arabo. Allora ti hanno inviata in Somalia non per fare la giornalista e raccontare le notizie. Il tuo compito era molto più grande di te. Chi ti ha mandato allo sbaraglio? Chi aveva bisogno di sapere, conoscere e annichilire la Cooperazione italiana. Sulla bocca di tutti c’era questa vergognosa frase: mungere finché la vacca può. Una specie di bidello-sacrestano-ergastolano-nullafacente-tuttofare-mafioso-emiliano mi accolse con la famosa frase della vacca: la Cooperazione italiana è una vacca da mungere! Erano gli anni ’70. Nel ’94, questa frase ormai era diventata di dominio pubblico: tutti ladri, tutti in galera! Ma che c’entro io che volevo solo il bene dei paesi poveri e della povera Italia? Niente! Tutti ladri!). Non è stata effettuata neanche un’autopsia. Sarà solo nel 1996 che le analisi sulla salma riesumata metteranno in luce che i colpi che hanno ucciso Miran e Ilaria sono stati sparati a bruciapelo (chi vuole ammazzare, ammazza a brucia pelo e anche a brucia pezzo), facendo saltare le ricostruzioni che volevano i due giornalisti vittime casuali di un agguato. Ed ancora. Si sa che Ilaria aveva con sé due taccuini (ecco i taccuini, ma che cavolo poteva dire?) un block notes fitto di appunti (ma quali appunti? Perché questi appunti non i ha spediti al Direttore del Tg3? He cazzo faceva il Direttore del Tg3?) e una macchina fotografica (da quattro soldi, ma una spia, una che doveva fare un servizio esclusivo gli dai una macchina che probabilmente era la sua. Ma che cavolo di intelligence ha Rai 3? Fatti una foto e poi se intervisti il potente, scatta più foto quanto puoi). Nulla di tutto ciò è arrivato in Italia (e neno male, cosa avremmo potuto vedere? Avete presente la strumentazione della Cia e del Kgb? Povera Ilaria, non sapeva nemmeno dove poter sviluppare le sue magnifiche foto), ma c’è chi questi oggetti li aveva visti e filmati. La morte di Ilaria e Miran fu ripresa da due troupes di altrettante emittenti televisive: Rtsi (svizzera italiana) e Abc (USA). Ma stranamente anche gli operatori delle due tv sono morti poco tempo dopo in circostanze poco chiare. Vittorio Lenzi (Rtsi) trovò la morte in un incidente stradale mai del tutto chiarito. Stessa sorte toccò al cameraman di Abc, rinvenuto cadavere in un albergo di Kabul un anno dopo.

E il caso s’ingrossa

Morti sospette, come quelle di altri personaggi collegati al “Caso Alpi”. Come quella di Vincenzo Li Causi, capostruttura di Gladio in Sicilia (legalmente riconosciuto durante la Guerra Fredda), maresciallo del Sismi e confidente di Ilaria (allora Ilaria era una spia?), ucciso in Somalia pochi mesi prima dell’agguato che è costato la vita alla giornalista Rai e al suo operatore. Li Causi sapeva del possibile coinvolgimento di militari italiani nel traffico illecito di armi (spero che abbia informato il direttore di Rai 3). Segreti che prima di morire sarebbe riuscito a passare a Ilaria (sempre più losca e sempre più implicata, nonostante che il Direttore del Tg3 era all’oscuro, anzi era un complice del delitto di una sua redattrice). E il 13 giugno 1995 verrà trovato ucciso anche Marco Mandolini, paracadutista della Folgore, stretto collaboratore e amico di Li Causi. Lo troveranno cadavere sulla spiaggia di Livorno, ucciso da 40 coltellate e con la testa fracassata (non bastavano 40 coltellate, anche la testa fracassata e non si sa perché, anzi sì, sapeva che Ilaria era stata uccisa dai servizi segreti e lui, Mandolini, della Folgore, uno che si buttava per vivere, ora era complice della spia Ilaria a tutt’azimut). Un documento riservato del Sismi proverebbe la collaborazione tra Li Causi e Mandolini nel trasporto di materiale bellico dal porto di La Spezia al porto di Trapani, all’aeroporto militare trapanese, alla Somalia. Traffici “sospetti” che erano stati filmati clandestinamente dal giornalista Mauro Rostagno, ucciso anch’egli il 26 settembre 1988 in circostanze a loro volta mai chiarite (e ci mancava Rostagno, ucciso 14 anni prima).

Fin qui. Continua senza commenti

Le indagini

Questi non sono che alcuni pezzi del mosaico su cui la magistratura e la Commissione parlamentare d’inchiesta istituita nel 2004 e presieduta dall’On. Carlo Taormina avrebbero dovuto far luce. Ma ancora oggi l’unico a finire dietro le sbarre è stato Hashi Omar Assan, condannato a 26 anni per concorso in omicidio plurimo (gli mancano 10 anni, che passano presto). Assan era arrivato a Roma due giorni prima del suo arresto per testimoniare alla commissione sulle presunte violenze dei soldati italiani in Somalia. Ma per casualità sarebbe stato immediatamente identificato dall’autista della Alpi come uno dei componenti del commando (riconoscere un somalo è come riconoscere un cinese quando si trova a Tokyo. Ma tant’è. Il somalo armato dal Ministero degli Esteri Italiano è lui, lui che avrebbe agito per tappare la bocca dalle nefandezze che lui, insieme alla Cooperazione italiana avevano perpetuato contro l’Italia fascista che fa i soldi con la povertà e la fame nel mondo). La condanna è arrivata dopo due processi. Il primo si era concluso con una sentenza di assoluzione che definiva il procedimento come «la costruzione di un capro espiatorio». «Alcune piste» scrivevano i magistrati «potrebbero portare a ritenere che la Alpi sia stata uccisa a causa di quello che aveva scoperto (ma cosa aveva scoperto se non l’acqua calda?)». Nella stessa direzione va quanto dichiarato dal Generale del Sisde Rajola Pescarini alla Commissione Parlamentare di inchiesta : «I misteri della cooperazione non si trovano né a Bosaso né a Mogadiscio. Stanno a Roma, o in qualche Paese vicino, dove ci sono le banche (ma di che cavoli di tesori parla? Dove sono le prove. Ma poi, era veramente una nullità. Basta guardare i flussi della cooperazione internazionale verso il Terzo mondo, ma la Somalia era una nullità! Non c’erano interessi di sorta. Questi quattro imbecilli che infangano la Cooperazione italiana erano degli imbecilli che non sapevano e non potevano assumersi la paternità di un così efferato delitto. Quattro stronzi inesistenti». Una Commissione che ha concluso i suoi lavori praticamente con un nulla di fatto. Tre relazioni, tutte contrastanti. Quella di maggioranza, in barba a 10 anni di inchieste giornalistiche e giudiziarie che hanno battuto la strada dei traffici di armi e di rifiuti radioattivi, degli affari italiani della cooperazione in Africa e delle contiguità dei servizi segreti con faccendieri spregiudicati, identifica nell’estremismo islamico la matrice dell’omicidio. Quella di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, ha detto Taormina «è stata una settimana di vacanza conclusa tragicamente». (E’ vero che la conclusione di Taormina taglia le gambe ad un’inchiesta che non ha avuto la possibilità di verificare, per filo e per segno, tutte le sfaccettature di un’inchiesta ancora in alto mare; è vero che Ilaria non era andata in Somalia per una vacanza; ma Taormina vuole mettere in evidenza la vacuità, la superficialità di persone inviate sul fronte senza risorse. Vacanza è la mancanza di lavoro con strumenti idonei. La colpa è del Direttore del Tg3 che ha inviato Ilaria in vacanza in Somalia mentre si stava svolgendo una vera e propria guerra).

«I punti critici della commissione sono tantissimi» ha detto Mauro Bulgarelli, autore di una delle relazioni di minoranza «ad esempio, a noi commissari non è mai stato permesso di controinterrogare una delle persone che piú hanno vissuto il caso Alpi direttamente, cioè questo faccendiere, Giancarlo Marocchino. E poi c’è l’attacco da parte del presidente nei confronti della stampa, in particolare contro Maurizio Torrealta». Il giornalista, uno dei primi a investigare sulla morte di Ilaria è stato accusato di aver occultato del materiale. «È stato ascoltato una prima volta», ha riferito Bulgarelli, « doveva essere chiamato una seconda, ma dopo una settimana vennero sequestrati dei documenti che lo riguardavano alla Rai, incluso la sua scheda personale». E per le sue indagini è stato più volte querelato e ha subito 5 processi.

Eppure, nonostante gli sforzi di familiari, parlamentari e giornalisti, oggi non si è ancora arrivati alla verità. Nessun processo ha messo dietro le sbarre i mandanti dell’esecuzione dei due giornalisti. «Basterebbe semplicemente intrecciare le carte, tutte secretate, chiuse in non so quale stanza di non so quale palazzo dello stato italiano, per capire chi ha ucciso Ilaria Alpi», è il commento amaro di Bulgarelli.

Ma nonostante siano passati 16 anni, il caso rimane di schiacciante attualità: «Ogni indagine che viene fatta sul traffico di rifiuti tossici e sul loro smaltimento illecito, finisce per essere legata al caso. Due fa un pentito di una cosca calabrese, ha parlato di smaltimento di rifiuti tossici dirottati verso la Somalia. Il paese in quel momento era il centro di tutta una serie di malaffare, dal traffico di armi, al riciclaggio di denaro, al traffico di rifiuti tossici, che sembrava uno degli sport preferiti delle ricche democrazie occidentali, che andavano lì a sotterrare ciò che era bene non tenere in patria perché ritenuto pericoloso. C’è stata già l’ammissione da parte di alcuni Paesi, come la Svezia qualche anno fa, mentre in Italia tutto tace», ha affermato Bulgarelli.

Quel pentito si chiama Francesco Fonti. Ha iniziato a collaborare con i magistrati della Dda di Reggio Calabria nel ’94. Ed è considerato “uno che sa”.

Il 5 luglio 2005 Fonti è stato sentito anche dalla commissione d’inchiesta sulla morte di Ilaria e Miran. E con i commissari, Fonti ha parlato a lungo. Delle due navi della Shifco – una carica di rifiuti compresi fanghi di plutonio, l’altra di armi- che dall’Italia vanno in Somalia tra Mogadiscio e Bosaso a fine gennaio ‘93. Di un altro carico stessa destinazione nel 1987/1989. Di Giancarlo Marocchino come persona che ha fornito gli automezzi da Mogadiscio a Bosaso. Di altri nomi “interessanti” per l’inchiesta compresi quelli di chi ha trattato con lui (italiani e somali) e di chi si è occupato dell’occultamento dei carichi. Ma tutto è stato secretato. E il segreto – si sa – è l’anticamera dell’oblio.

Come nell’oblio è finita l’inchiesta interna che avrebbe dovuto far luce su chi avesse fatto sparire, dal plico custodito nell’Archivio della Procura di Reggio Calabria, 11 dei 21 fascicoli archiviati, insieme al certificato di morte della giornalista del Tg3. Certificato che era stato ritrovato a casa di Giorgio Comerio, noto faccendiere al centro dell’inchiesta per l’affondamento della nave Jolly Rosso. Un’indagine complessa, durante la quale sono venuti fuori nomi di Stati e trafficanti coinvolti nella presunta operazione affonda scorie. L’ennesima “nave dei veleni” affondata nei mari calabresi con la stiva piena di veleni di ogni tipo, ma non prima di aver scarrozzato da una parte all’altra del Mediterraneo armi, munizioni e rifiuti di ogni genere. Traffici che solamente organizzazioni criminali come la ‘ndrangheta possono gestire. Traffici che però – dicono le inchieste – non avrebbero potuto crescere e prosperare, ramificandosi in tutti i territori e su tutti i mercati senza coperture, silenzi e complicità nelle strutture di potere pubbliche e private. Eppure, non c’è ancora nessuno che stia pagando. Né per i quintali di scorie sversati davanti alle nostre coste, né per i traffici che hanno rimpinguato le casse di criminali di ogni latitudine e nazionalità, né per l’omicidio dei due giornalisti.

L’unico a finire dietro le sbarre per la morte di Ilaria e Mirano è stato Hashi Omar Hassan. Assolto in primo grado perché definito dai magistrati “un capro espiatorio”, condannato in secondo grado, con pena ridotta in Cassazione, Hassan sta scontando 26 anni nel carcere di Padova. A inchiodarlo, la testimonianza di Ali Rage Hamed detto Jelle, misteriosamente scovato da un “funzionario dell’ambasciata italiana”, sparito venti giorni prima del processo e tuttora “irreperibile”. A nulla sono valse né le testimonianze di chi ha dichiarato che Jelle non era presente sul luogo del duplice omicidio, né una conversazione telefonica registrata in cui lo stesso Jelle dichiara di essere stato indotto ad accusare Hashi ma di voler ritrattare e raccontare la verità.

Oggi però il caso Alpi potrebbe riaprirsi. Il dottor Maurizio Silvestri ha respinto la richiesta di archiviazione avanzata dal Pm Giancarlo Amato della Procura di Roma disponendo invece l’imputazione coatta per il reato di calunnia per Jelle. A meno che qualcuno non intervenga – per l’ennesima volta- a rimescolare le carte.

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