Il Giorno della Memoria dedicato ad Arturo Troilodi
Roberto MaurizioArturo Troilo, 1940
Arturo Troilo con Carlo Baserga, di Como, Alberto Rossetti, di Napoli, Publio Prevost, di Pistoia, 1940 Il “Giorno della Memoria”, istituito nel 2000, invita tutti i cittadini italiani, soprattutto i più giovani, a ricordare lo sterminio del popolo ebraico, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia e la morte nei campi di concentramento nazisti. Mentre, giustamente, il popolo ebraico ricorda con cordoglio e sdegno la Shoah, nessuno pensa ai nostri soldati deportati, imprigionati o morti nei lagher nazisti. Forse sono stati degli “eroi” che i media considerano di secondo piano o ignorano completamente. Sarebbe ora di dare a loro la giusta collocazione storica che meritano
Un cimitero dei soldati italiani internati nei campi di concentramento nazisti. Fotografia scattata dai superstiti dell'eccidio di Treuenbrietzen, i quali finita la guerra si sono recati nel campo per dare una degna sepoltura ai loro compagni di prigionia.
Montorfano Natale.
Vivi e lascia vivere
Arturo Troilo (a sinistra) e Carlo Baserga, 1940
Notare la gamba sinistra di Arturo, volutamente retratta all'indietro. Il cosiddetto scherzo "imbecille" dei giovani soldati
Ho vissuto i primi anni della mia vita in un paesino dell’Italia del Sud, San Martino in Pensilis, provincia di Campobasso. Erano gli anni immediatamente dopo la fine del Secondo conflitto mondiale. Proprio oggi, nel “Giorno della Memoria”, mi ritornano in mente quegli istanti che credevo completamente dimenticati. Erano anni difficili, sia dal punto di vista economico sia da quello politico. Mentre al primo, la gente non faceva molto caso, avendo già attraversato il periodo bellico nella miseria e nella povertà, al secondo gli animi si appassionavano, si accendevano per un non nulla. Si poteva arrivare anche allo scontro fisico, ma il senso atavico del “vivi e lascia vivere” prevaleva nelle due fazioni più intenti ad un meritato “riposo del guerriero”. Mentre “la guerra civile” nelle altre parti d’Italia tardava a vedere una fine, San Martino dormiva un sonno profondo, qua e là guastato da una scaramuccia. Il paese, dunque, era fuori dalle aree calde della “guerra normale” e da quella “partigiana”, viveva come una delle tante Terre del Sacramento. A pochi chilometri più a Nord, dopo il 1943, si era consumata una “rivolta partigiana” grazie al gruppo creato da Domenico Troilo, un giovane ufficiale abruzzese reduce dall’Africa, e dall’avvocato Ettore Troilo, omonimo ma non parente del primo, che sarebbe poi stato il discusso Prefetto di Milano subito dopo la Liberazione. Questi “banditi”, chiamati in un primo momento con questo appellativo a causa dei continui bandi che le truppe di occupazione tedesche trasmettevano quotidianamente, formarono la “Brigata Maiella”, che ottenne successivamente riconoscimenti e decorazioni. Di questi “banditi”, “partigiani”, “eroi della Resistenza”, “accozzaglia di fuori usciti”, ne sentivo parlare, in paese, solo come un’eco lontana: con astio dai “nostalgici” e con somma lode dai “comunisti”. A casa, invece, nessun accenno, nonostante che mia madre portasse proprio il cognome di Troilo. Forse era un modo per dimenticare.
Lo Stemma della Brigata Maiella
Cum grano salis
Un matrimoniio in tempo di guerra, 2 agosto 1941
Il paese era profondamente, visibilmente e ostentatamente diviso, ma, cum grano salis. Da una parte il “popolo”, con a capo il Maestro Cardone che aveva come unico e onnipotente riferimento Stalin e attendeva “Baffone”, dall’altra la medio borghesia, con a capo il Maetro Gasbarro, ancora legata al Ventennio, al centro gli ignavi, a guardia la Chiesa. Mentre sentivo parlare in continuazione di Prima Guerra Mondiale, seduto sulle gambe di mio nonno, grande invalido, cieco, che mi raccontava le sue gesta eroiche vissute sul Carso (“donò gli occhi” alla Patria sul Monte Sei Busi), della Seconda nemmeno una parola se non quelle di mio padre "sotto i bombardamenti di Foggia". Mio nonno, Beniamino, era solito ripercorrere in dialetto la sua avventura: “L’hai ammett (devi comprendere) – diceva – il nemico era a pochi metri e noi soldati italiani dovevamo fare gli attacchi alla baionetta. Una granata cadde a pochi metri da me quando eravamo lanciati contro il nemico sul Monte Sebbusse (io capivo così, era, invece, il Monte Sei Busi, nei pressi del quale, dopo 58 anni dal ferimento di mio nonno, da laureato feci il soldato semplice)". "Fui colpito da una raffica di schegge - così continuava il racconto di mio nonno che accompagnava la cadenza lenta della voce rauca con il dito mignolo sbattuto ripetutamente sul tavolo dove poggiava con accurata precisione la sua pipa con dentro un pezzo di sigaro toscano preparato a pezzi con i gesti che solo i ciechi sanno fare -". "Fu l'ultima volta che vidi la luce. Gli occhi e la testa furono colpiti da un'enorme quantità di frammenti prodotti dal quel miciale proiettile". "Fu un vero miracolo che non ci rimisi la pelle". "Ero giovane e forte, avevo per anni e anni lavorato duramente la terra e sapevo resistere al dolore e alla sofferenza". "Il callo della sofferenza però, mi abbandonò quando il mio treno che mi trasportava, insieme agli altri feriti di guerra, dal fronte all’ospedale Celio di Roma, venne assalito da una folla inferocita che ci lanciò insulti e sputi". Così terminava la descrizione del suo ferimento. Alzava le sopracciglia al cielo, svuotava la pipa con i suoi strumenti che non abbandonava mai e ricominciava a tagliare di nuovi altri sigari toscani per le successive prossime fumate. Nonostante la drammaticità della sua situazione, non sentii mai profferire da mio nonno una maledizione verso chi lo aveva ridotto in quello stato e chi lo aveva profondamente offeso. Subito dopo il racconto, infatti, cominciava a cantare: "Andiamo a mietere il grano, il grano...". Un uomo dell’800 con un grande senso di Patria, di famiglia (otto figli), di solidarietà, di bontà e di umiltà. Anzi, nel corso dei quotidiani “appuntamenti” con i veterani in piazza, metà del tempo seduto davanti alla Società Operaia e l’altra dentro l’Osteria, parlava orgogliosamente del suo gesto e non rimpiangeva nulla, se non quello di non aver mai visto quei figli avuti dopo il suo ferimento al fronte.
Dalla Prima Guerra alla Seconda
Beniamino Maurizio, Grande Invalido della I Guerra Mondiale, con la madre, la figlia primogenita, e il compaesano Di Cintio all'Ospedale Celio di Roma, 1915
La Grande Guerra e tutto il Risorgimento per i ragazzi di allora (anni ’50) era visibile come Memoria tangibile nei monumenti e nella toponomastica ed e poi bisognava studiarla per forza sui libri di storia, dove però non comparivano mai gli eventi avversi al Regno d’Italia. Solo dai vecchi si aveva un’altra versione, comunque non corroborata da nessun documento scritto: la “Resistenza” dei molisani ai piemontesi e a Garibaldi, non proprio amato dai vecchi, ma adorato dai giovani che trovavano, sempre sui famosi libri di storia le fotografie dell’Eroe dei Due Mondi, sul cavallo con il basco e il poncho, in piedi, accanto all’amatissima Anita, con la camicia rossa. Invece, sui libri di scuola, la Seconda Guerra Mondiale non esisteva, il fascismo, oscurato, smagnetizzato. Di fascismo e di Seconda Guerra, però, se ne parlava in silenzio, in pochissime e sporadiche occasioni. Al massimo, si ricordavano le canzoni d’amore degli anni ’30 e ’40, e si guardavano le fotografie già allora ingiallite da una patina di nostalgia e da una qualche "vergogna". Le vecchie foto si ammiravano di soppiatto, come qualcosa da nascondere, come l'immagine dei matrimoni (mio padre si era sposato nel 1941 con la divisa para militare, anche perché non aveva un vestito nuovo). A volte, in piazza, subito dopo una bevuta, si sentivano i reduci della Russia che facevano l’apologia dei Tank tedeschi che sparavano e si facevano largo tra una montagna di neve: “Ta-ta-ta-tà-tra-pà-tra-pà” e i russi fuggivano. Questa la parte brillante iniziale del racconto onomatopeico dei reduci della Campagna di Russia, che si infrangeva, alla fine, con le sofferenze patite durante la rovinosa ritirata! Il Generale Gelo, le dita congelate, la vergogna, la disfatta. Ma tutto era espresso con estrema semplicità e ingenuità.
A casa, i discorsi erano diversi. Ecco uno dei pochi racconti che mi ripeteva mio padre a scansioni prefissate, ogni sei mesi: la sua guerra: “Era quasi l’alba. Foggia era ancora immersa nel sonno, quando da Sud, Sud-Est, una folta squadriglia di caccia bombardieri americani e inglesi si avvicinavano minacciosamente. Il primo sentimento che mi assaliva, diceva, era quello di mettermi in salvo. Così feci. Invece, continuava nel suo racconto, il giovane mitragliere tedesco con il quale avevo condiviso la cena il giorno prima, caricò l’arma, la diresse verso il cielo e iniziò a sparare per più di un quarto d’ora di seguito, al termine del quale le schegge di una bomba, caduta non molto lontano da lui, gli falciarono di netto la testa”. Una scena agghiacciante!
I ricordi degli anni bui
Beniamino ha dato "gli occhi alla Patria"
La mia Memoria, che può essere definita, l’arte di voler dimenticare il passato nei sui aspetti negativi e ricordare solo quelli positivi, continua a perlustrare quel periodo post bellico. Ricordo che continuavano le uccisioni e i duelli mortali, sempre cum grano salis, senza però nessuna documentazione degna di far passare la notizia come verità. Appena due giorni dopo, l'oblio. Questa terra, abbandonata da Dio e dagli uomini, conobbe anni bui sui quali nessun ancora ha portato luce. Un periodo "nero che va dall’11 settembre 1943 al 27 settembre 1950 (Guerra di Corea) fino al 1951 (fine del Piano Marshall). Sarebbe ora che la Memoria facesse il suo ingresso anche in questa parte dello stivale.
Disegno di un internato militare italiano, durante la prigionia nel campo di Hammerstein '43 - '45
La legge 20 luglio 2000m n° 211
Bari, un gruppo di reduci dei campi di concentramento nazisti
Questo è il nono anno che si celebra il “Giorno della Memoria”, presentato dai Media come “Giorno dell’Olocausto” che fa imbestialire, giustamente, gli ebrei che definiscono lo sterminio di milioni di esseri umani, più propriamente, “Shoah”. La data del 27 gennaio è stata scelta dal Parlamento per ricordare il giorno del 1945, quando l’Armata Rossa, nel corso dell’offensiva in direzione di Berlino, arrivò presso la città polacca di Oswecim (nota con il nome tedesco di Auschwitz), scoprendo il suo tristemente famoso campo di concentramento e liberandone i pochi superstiti. La scoperta di Auschwitz e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono compiutamente per la prima volta al mondo l'orrore del genocidio nazista. I media, poi, inglobano in questa giornata anche l’eccidio di zingari, slavi, omosessuali, dimenticandosi dei prigionieri italiani. La legge 20 luglio 2000 è addirittura così intitolata: Istituzione del “Giorno della Memoria” in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militati e politici italiani nei campi nazisti”. La Legge, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n° 177 del 31 luglio 2000, si compne di due articoli:
Art. 1.1. La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.
Art. 2.1. In occasione del "Giorno della Memoria" di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere .
Schiavi di Hitler
Secondo il Prof. Leuzzi, che ha ricevuto a Bari, 29 gennaio 2007, i reduci italiani prigionieri nei campi di concentramento nazisti, “furono più di 700mila gli italiani militari deportati in Germania e 450.000 le vittime civili e militari italiane. È una pagina dolorosa della storia d’Italia ancor più perché la Germania ha riconosciuto agli internati militari solamente la condizione di schiavi di Hitler. Questo vuol dire che la memoria di ciò che è accaduto non è stata assolutamente risarcita e sono molti coloro che non hanno ricevuto la minima attenzione dall’Italia repubblicana”.
Arturo Troilo
Il reticolo
Arturo Troilo, settembre 1941
Se le polemiche si avventano sui “negazionisti”, sulla chiesa cattolica, sui libri di testo inglesi che omettono di citare la Shoah, nessuno parla dell’indifferenza nei confronti della sorte degli italiani che hanno sofferto la deportazione, la prigionia e la morte nei lagher nazisti. Mio zio, Arturo Troilo, non parente dei Troilo della Brigata Maiella, è sopravvissuto alle sofferenze del campo di concentramento tedesco (come mi diceva lui) ed ebbe la sfortuna di non morire lì, subito. E’ sopravvissuto a quell’incubo che lo ha tormentato per tutta la vita vissuta in una lunga e incessante attesa della morte che è sopraggiunta come liberazione 10 anni fa.