Gli obiettivi della cooperazione italiana
di Roberto Maurizio
Elisabetta Belloni, Direttore Generale della Cooperazione allo Sviluppo
Risorse, cultura e comunicazione
«Capisco, e in larga misura condivido, l’idea che un esercizio di razionalizzazione mirata ad accrescere le capacità produttive della cooperazione e a rendere più efficace l’aiuto non possa prescindere dalla quantità di risorse disponibili. Il problema c’è ma è solo parzialmente vero». Chi parla è Elisabetta Belloni, direttore generale della Cooperazione allo Sviluppo. Impossibilitata a presiedere al Forum, le riassumiamo i temi discussi in quella sede e le chiediamo il suo punto di vista, a cominciare dall’emergenza risorse.
Cosa significa che il problema è solo parzialmente vero?
«Abbiamo la fortuna di vivere un momento che fa seguito a due anni importanti in fatto di risorse, con il picco del 2007 e i finanziamenti del 2008, ancora consistenti sebbene inferiori all’anno precedente. Va tenuto conto che il processo di valutazione e l’iter per l’approvazione dei progetti fanno sì che il grosso delle approvazioni vada in esecuzione adesso, a fine 2008. L’esercizio di efficacia e di razionalizzazione diventa indispensabile proprio perché ora le risorse sono notevolissime in termini di progetti in attuazione. E’ vero che oggi stiamo investendo per i prossimi anni e che la carenza enorme di risorse in questa fase andrà certamente a influenzare la nostra capacità di produrre sviluppo negli anni a venire. Ecco perché voglio strumentalizzare la nostra accresciuta capacità di rendere efficace lo sviluppo e l’attività di cooperazione per dimostrare che occorrono più soldi nei prossimi anni».
E questo cosa significa in termini concreti?
« La situazione è critica e io non ho alternative se non quella di dimostrare di saper fare bene e di spingere affinché l’Italia contribuisca alla stabilità globale attraverso lo strumento della cooperazione. Se potrò dimostrare di aver ottenuto buoni risultati anche in termini di interesse nazionale, avrò più strumenti per far capire all’opinione pubblica, al Parlamento e al Governo quanto sia importante la cooperazione non solo come parte integrante della politica estera ma anche come strumento per creare stabilità e sicurezza a livello globale e a livello nazionale. In realtà la quantità di risorse e l’efficacia dell’aiuto anche attraverso la razionalizzazione sono un problema culturale. Forse noi siamo più indietro degli altri ma dobbiamo riconoscere che il problema riguarda tutti i paesi donatori e le cosiddette nuove economie. La cultura della cooperazione sta cambiando e noi dobbiamo esserne consapevoli».
In che modo sta cambiando?
«Innanzi tutto i tempo sono maturi per ripensare il concetto di sviluppo. Se ne parla a livello europeo. La conferenza di Doha porrà il tema all’ordine del giorno e noi intendiamo contribuire alla discussione. In particolare io sono convinta che la cooperazione sia uno strumento di politica estera e di stabilità. Ma occorre comunicare di più. L’opinione pubblica va resa consapevole che è necessario superare l’egoismo contingente e che, anche in un’ottica egoistica, la cooperazione è molto più vicina ai cittadini di quanto si pensi. La sicurezza, l’apertura o la chiusura delle frontiere, la disponibilità di materie prime, la crisi alimentare, sono tutti temi che influiscono direttamente sulla vita dei cittadini. Se si fosse capito questo le risorse per la cooperazione non sarebbero state tagliate. E io intendo usare questo periodo – augurandomi che arrivino correttivi all’ammontare così esiguo di risorse – per concentrarmi sull’efficacia e per comunicare in termini di cultura della cooperazione».
Nel merito della razionalizzazione, quali saranno le priorità, le aree e i settori di intervento da selezionare?
«Per la prima volta abbiamo una legge finanziaria triennale e quindi possiamo operare su un orizzonte più ampio, come ci chiede anche l’Ocse. Il nostro compito è proporre al Comitato direzionale le linee programmatiche per il prossimo esercizio finanziario, nel contesto degli impegni internazionali assunti dal nostro paese. Ho già avviato un dialogo con tutti coloro che possono contribuire a definire tali linee: la nostra amministrazione, le regioni, la società civile, le Ong, il mondo dell’imprenditoria, gli altri ministeri interessati. Dobbiamo far evolvere la metodologia di scelta del canale bilaterale o multilaterale, e sempre più ridare a quest’ultimo la competenza specifica per cui è stato creato – nella sostanza non nella procedura -, in coerenza con gli obiettivi nazionali della cooperazione. Certo, avendo pochissime risorse, non sarà facile marcare il progresso nella nostra capacità di determinare le priorità geografiche, di settore e di canale. Ma se già nelle linee programmatiche spieghiamo questo approccio avremo posto le basi per il futuro, quando avremo più risorse e potremo allocarle con molta più rapidità ed efficacia. In fondo l’esercizio della programmazione è parte integrante della razionalizzazione».
Secondo lei, esiste il rischio che la cooperazione civile sia fagocitata da quella militare?
«Sono convinta che la cooperazione, essendo di competenza dell’autorità politica, debba essere affidata ai civili e che, se questi dimostrano di saperla fare bene, nessuno può occupare il loro spazio. I militari devono fare il loro mestiere e peraltro lo fanno già benissimo, essendo i nostri soldati apprezzati in tutto il mondo. Ma non si può negare che in alcune aree lo strumento militare sia indispensabile per creare le condizioni dell’intervento civile. Ben venga dunque se in determinati contesti la cooperazione civile e quella militare si integrano reciprocamente. Nel settore specifico dell’emergenza ci sono poi situazioni particolari, come le aree di conflitto all’interno di un paese o di un’area, nelle quali la cooperazione di emergenza non può che rivolgersi allo strumento militare per l’esecuzione di determinate attività. Come capo dell’Unità di crisi sono stata la prima a organizzare un incontro tra società civile e militare sul tema della presenza nelle zone a rischio. Ancora di più lo farò adesso e, del resto, stiamo già lavorando con alcune Ong su questi concetti, con l’obiettivo di creare un terreno di incontro e di integrazione».
Anche le Ong sono chiamate a questo impegno di razionalizzazione? E in che modo?
«Sono stupita di quanto poco le nostre Ong emergano nel contesto internazionale come strumento di cooperazione. Il fatto poi che ad Accra nessuna Ong italiana sia stata selezionatami mi ha fatto riflettere. Noi facciamo tantissimo me è tutto molto frammentato, disperso e poco visibile. Non sono certo una che bada all’immagine e alla comunicazione senza sostanza. Ma è importante che quando c’è sostanza si sappia, altrimenti si resta fuori dalla definizione delle strategie e si è destinati a morire. Da parte mia c’è la massima disponibilità a recepire le istanze delle Ong e a lavorare con loro alla soluzione dei problemi. Ma occorre stabilire un dialogo alla pari, voglio una reazione costruttiva da parte loro e voglio sollecitarle a crescere. Capisco che ciascuna sia gelosa della propria autonomia. Se non vogliono crescere, allora che facciano rete. Ma forse, a pensarci bene, occorrono tutte e due le cose».
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