6 dicembre 2008

Rapporto Censis 2008. Troppo presto per dire fine

LA CRISI POTREBBE COSTRINGERE GLI ITALIANI A RIMBOCCARSI LE MANICHE
Italia, rischio default?

Il Censis fotografa un paese in pericolo, ma è l’ottimismo il Deus ex Machina per sconfiggere i corvi

Foto di Bettaglio Francesco

In preda al panico, rischio di collasso da implosione




Foto di Claudia Piccolo


È stato presentato il 5 dicembre 2008, a Roma, dal Presidente del Censis, Giuseppe De Rita, e dal Direttore generale, Giuseppe Roma, il 41° “Rapporto annuale sulla situazione sociale del paese”. Un anno fa, ha affermato il Presidente De Rita nel corso della presentazione del Rapporto, era “mucillagine”, quest’anno la società italiana – sempre più impaurita, addirittura è “in preda al panico” in seguito alla crisi finanziaria – e rischia un vero e proprio “collasso da implosione”. “Ricordiamoci, ha detto De Rita, che per collasso da implosione sono finiti sistemi apparentemente fortissimi”, come il comunismo di fine anni '80. In seguito alla finanza internazionale degli ultimi mesi, avverte ancora il Censis, “non possiamo escludere che un ricorrente appiattimento alla odierna crisi condanni anche noi ad un silenzioso collasso per implosione”.

Le Main Street italiane e “colpo grosso”



Dopo questo “colpo grosso”, il Rapporto, considerato uno tra i più incisivi strumenti di cui dispongano le élite per cercare di capire le Main Street italiane, passa a più moderate riflessioni, la prima delle quali si sofferma sulla crisi inattesa e grave che però non porta inevitabilmente verso un precipizio: non siamo ancora al capolinea, come vorrebbero i corvi (con tutto il rispetto di questi amici di “Stampa, Scuola e Vita”). La seconda visione mette in guardia l’opinione pubblica italiana dal calvario che ci attende “dietro l’angolo”: i prossimi mesi rappresenteranno per la nostra economia un vero e proprio calvario di licenziamenti e depressione, che non si tramuteranno, automaticamente, in fine del capitalismo, nella scomparsa del mercato. Secondo il Censis, non resteranno mute le bistrattatissime culture liberali. La modernità continuerà la sua corsa, riprenderà a produrre le sue contraddizioni e i suoi squilibri, libererà energie e ne comprimerà altre. All’orizzonte, però, secondo il Rapporto, non esiste un “altro mondo”, anche perché non ci sono alternative in vista. La crisi è descritta nei suoi contorni reali e angoscianti, si evoca addirittura la parola “panico”, e l'invito ai politici e all'opinione pubblica è a non rimuoverla nemmeno cercando conforto nella vivacità dei nostri distretti o nella tradizionale forza del familismo italiano. Sono immagini che abbiamo scattato per primi noi, sottolinea maliziosamente Giuseppe De Rita, e credeteci se vi diciamo che non sono sufficienti. Serve qualcosa di più, un cambiamento profondo. Il rapporto la chiama “seconda metamorfosi” (la prima è quella degli anni tra il '45 e il '75) e si spinge a sostenere che è già silenziosamente in marcia. Insomma stiamo già reagendo, anche se non ne siamo ancora consapevoli.

La metamorfosi: una società più matura, più mobile e aperta



Si può ovviamente discutere se davvero i caratteri e i soggetti della metamorfosi saranno quelli che De Rita indica nel Rapporto, ovvero le minoranze vitali, la presenza degli immigrati, il protagonismo delle donne, nuovi stili di vita e di consumo. Se così fosse sarebbe da gioirne perché l'uscita dal tunnel farebbe il paio, questa volta, con il delinearsi di una società più matura e insieme più mobile e aperta, mentre oggi la crisi con le sue urgenze, con il suo impellente “qui ed scommessa deritiana sulla metamorfosi è comunque un richiamo all'establishment italiano a non rinchiudersi nella fortezza assediata, a rispondere ai colpi della crisi aprendo le finestre e non accentuando il carattere oligarchico della nostra società.

Investimenti e mutui

Vediamo i punti centrali del Rapporto. Secondo il Censis, la crisi finanziaria mette “potenzialmente in pericolo” una famiglia italiana su due. Quasi 12 milioni (il 48,8% del totale) sono le famiglie che “denunciano un concreto rischio di default” e sette italiani su dieci pensa che “il terremoto nei mercati possa ripercuotersi direttamente sulla propria vita”. A determinare il rischio concorrono “investimenti in prodotti rischiosi”, mutui, credito al consumo e assenza di risparmio accumulato. L’analisi del livello di indebitamento delle famiglie effettuata dal 41° Rapporto denuncia un incremento dell’8,5% in più rispetto al 2004 (si è, infatti, passati dal 40% al 48,5% di quest’anno). Circa il 12% degli oltre 24 milioni di famiglie attualmente risulta gravato da un mutuo immobiliare. Di questi, sostiene il Censis, quasi il 60% (2.800.000) “non ha difficoltà nella restituzione e nel pagamento delle rate. Il 29,1% (838.000) ha dichiarato “qualche difficoltà ma non tale da rappresentare un vero problema o rischio di insolvenza”. Solo il 9,7% delle famiglie invece “ha indicato notevoli difficoltà rispettando tuttavia le scadenza”. Il vero pericolo si annida sul rimanente 2,8% di famiglie (81.000 circa) che “ha dichiarato di non aver rispettato le scadenze di pagamento delle rate”. Tra le famiglie “potenzialmente in pericolo, che denunciano un concreto rischio di default”, il Censis indica prima di tutto i 2,8 milioni di famiglie (pari all’11,8% del totale) che hanno investimenti in prodotti rischiosi, come azioni o quote di Fondi comuni: di queste, 1,7 milioni (circa il 7,1% delle famiglie italiane) vi hanno collocato più della metà dei propri risparmi. Vanno poi aggiunti i 3,1 milioni di famiglie (il 12,8%) che risultano indebitate per l’acquisto di beni al consumo: di queste, 971 mila (il 4% del totale) hanno un debito superiore al 30% del reddito annuo famigliare. Infine 3 milioni e 873 mila famiglie (il 16% del totale) non posseggono un risparmio accumulato in alcuna forma e “potrebbero trovarsi – afferma il Censis – nella condizione di non saper fronteggiare eventuali spese impreviste o forti rincari di beni di primaria necessità”.

Consumi


I tagli ai consumi dovuti alla crisi mondiale è quanto emerge dal 42mo Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese 2008, che evidenzia anche come la cautela, spesso tacciata di arretratezza o chiusura all’innovazione, “si stia dimostrando una polizza contro le disavventure”. Di fronte alla crisi il “25,2% degli italiani – si legge nel rapporto – sembrerebbe non avere altra strada che il taglio radicale dei consumi”. Sono invece oltre 5,5 milioni, secondo le stime del Censis, “gli ‘indennì, vale a dire gli italiani che utilizzeranno allo stesso modo o in misura maggiore un ampio spettro di beni e servizi (dalla dieta alimentare quotidiana prediletta all’utilizzo dell’automobile e del cellulare, alle vacanze, fino alle spese per parrucchiera, estetista e fitness)”: si tratta in prevalenza di persone di età compresa tra 30 e 44 anni, single o senza figli, residenti in comuni tra 10 mila e 30 mila abitanti, non solo con redditi alti ma anche medi. Più di 880 mila italiani, invece, “dovranno tagliare robustamente la matrice dei consumi”: si tratta in particolare di anziani single, coppie con almeno due figli e persone con basso livello di scolarità. Più in generale, gli italiani, “sempre più orientati alla liquidità, in fuga dal risparmio gestito, fedeli ad antiche diffidenze e alla ricerca di nuove sicurezze”, osserva il Censis, ritengono che i soldi in questa fase vadano tenuti in contanti (29,3%), in depositi bancari e/o postali (23,4%) o, al limite, vadano usati per cogliere una buona occasione sul mercato immobiliare in rallentamento (22,2%). E, se proprio si deve investire, è bene ricorrere agli inossidabili titoli di stato (16,4%).

Trasporti, alta velocità


Con l’entrata in funzione, nei prossimi mesi, di nuove tratte di notevole estensione, anche in Italia l’alta velocita’ ferroviaria assumera’ un ruolo decisivo per il trasporto interno di lunga percorrenza. La proiezione e’ del Censis, che nel suo Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese, ricorda che e’ in fase di ultimazione una rete con un’estensione di circa mille chilometri, la cui direttrice principale va da Torino a Salerno, passando per i nodi di Milano, Bologna, Firenze, Roma e Napoli. Le nuove linee sono state progettate per consentire un traffico promiscuo (di qui la doppia dizione Alta Velocita’-Alta Capacita’), di treni passeggeri e di treni merci sulle medie e lunghe percorrenze. Alcuni tratti – si legge nel Rapporto del Censis – sono gia’ in esercizio (la vecchia direttissima Firenze-Roma, la Torino-Novara e gran parte della Roma-Napoli) mentre e’ imminente l’inaugurazione della Milano-Bologna (182 chilometri). Saranno, invece, pronte a fine 2009 la Bologna-Firenze e la Novara-Milano. In fase di cantierizzazione risultano, infine, le quattro nuove stazioni ferroviarie di Torino Porta Susa, Bologna, Firenze, Roma Tiburtina e Napoli-Afragola. Un’importante novita’ messa in luce dal Censis e’, inoltre, l’ingresso, nel settore ferroviario italiano, del primo operatore privato, la societa’ Nuovo Trasporto Viaggiatori spa (Ntv), che lancera’ il suo servizio commerciale a partire dal 2011, con una flotta di 25 nuove unita’ di treni superveloci Alstom Agv. Nel corso del 2008 – sottolinea ancora il Censis – si e’ registrato un significativo progressivo sul fronte della Tav Torino-Lione e proprio oggi e’ giunto il via libera di Bruxelles ai finanziamenti all’Italia relativi a questa tratta, al traforo del Brennero e alla linea Trieste-Divaca. Di fatto ammontano complessivamente a otre 1,6 miliardi di euro i finanziamenti destinati a progetti italiani.

Istruzione superiore e Università


Secondo il Rapporto del Censis, i livelli di competenza degli studenti italiani, dopo il biennio delle scuole superiori, risultano “inadeguati” se confrontati a quelli degli altri paesi Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo internazionale). Le rilevazioni internazionali da troppi anni sono concordi nell’evidenziare la scarsa efficienza del sistema educativo italiano: Atenei sempre più al margine della ricerca mondiale più avanzata e scuole con alunni sempre meno bravi dei loro compagni stranieri. Nonostante gli ingenti finanziamenti, la lunghezza e il peso dei percorsi formativi, il nostro sistema educativo non prepara “candidati al lavoro” e rende i nostri giovani già fuori mercato ancora prima di iniziare un’attività. Nonostante manchino appena due anni alla scadenza entro la quale, secondo l’Agenda di Lisbona, l’Europa dovrebbe diventare l’economia più competitiva e dinamica del mondo, basata sulla conoscenza, l’Italia è ancora lontana dal conseguire gran parte degli obiettivi fondamentali dell’Agenda e prevale nel nostro paese un atteggiamento non adeguato alle sfide che noi stessi abbiamo contribuito a fissare in sede comunitaria. In altre parole, ancora non sono state messe a punto misure e azioni per far fronte all’emergenza educativa. In particolare non si è ancora stimato il danno che tale emergenza educativa ha prodotto e produce sulla competitività dell’Italia. Ogni qualvolta si definisce un’ipotesi di riforma si manifestano resistenze e critiche, che altro non sono se non tentativi di tutela di “privilegi consolidati” o, al meglio, “pregiudizi di natura ideologica” (il lungo ’68 italiano). Ogni cambiamento viene giudicato sempre “prematuro” e qualsiasi variazione, pur approvata, viene posticipata rimandando ogni volta la data di attuazione. Così da almeno tre Legislature (nella XIII con Berlinguer, nella XIV con Moratti e con Fioroni e Mussi nella XV) assistiamo per la scuola e per l’Università a proroghe e rinvii, stop and go che hanno determinato immobilismo e sfiducia in chi lavora nelle scuole e negli Atenei, nonché preoccupazione e diffidenza nelle famiglie e negli studenti. Affermare, allora, che è finalmente giunto il “tempo delle riforme” significa introdurre una netta “discontinuità”, innanzitutto di metodo: la “conservazione” e i “veti incrociati” devono lasciare il posto all’innovazione” e al “cambiamento”, con tempi definiti e certi, sia per l’avvio reale delle innovazioni, sia per verificarne periodicamente l’efficacia. E’ quanto ha fatto il Governo, innanzitutto con la Legge n° 133 e successivamente con i decreti Gelmini, 137 per la scuola e 180 per l’Università. E la decretazione d’urgenza ha garantito, appunto, l’immediata entrata in vigore delle norme. Cosa contengono queste norme è sicuramente noto a tutti, ma vorrei suggerirvi una chiave di lettura in più: il Governo armonizzando quanto di meglio è stato approvato finora in Parlamento e modificando, anche radicalmente, ciò che finora ha impedito, alla scuola e all’Università di recuperare autorevolezza senso e prestigio, ha indicato tempi per attuare il cambiamento: tre anni, il triennio 2009/2011. Con una sfida in più: riqualificare la spesa pubblica, eliminando gli sprechi e garantendo qualità diffusa, nel rispetto della domanda educativa proveniente dalle famiglie e dagli studenti. Non si tratta di un fine di Legislatura, ma di un mezzo indispensabile per liberare risorse. Piacerebbe a tutti non doversi misurare con questi vincoli: ma sarebbe da irresponsabili astenersi dall’intervenire in una situazione con squilibri macroscopici nella distribuzione dei mezzi. Tra l’altro, attualmente sia il sistema scolastico sia quello universitario risultano eccessivamente costosi a fronte degli esiti in uscita, sia in termini di competenze acquisite e sia in grado di spendibilità nel mercato del lavoro. Abbiamo, dunque, il dovere di adeguarci agli standard europei e dei Paesi Ocse. Soprattutto alla luce degli studi economici e statistici effettuati da numerose fonti autorevoli del nostro paese, dalla Banca d’Italia, all’Istat, al Censis, all’Isfol, ai rapporti del Ministero del Lavoro (Libro Verde), dell’Economia e dello stesso Ministero dell’Istruzione, penso anche al Quaderno Bianco predisposto dai Ministri Padoa-Schioppa e Fioroni nel settembre 2007. Questa è oggi la sfida! E mentre innoviamo, dobbiamo proporci di superare le emergenze educative che trasversalmente interessano i diversi gradi dell’istruzione e il livello accademico. Le richiamo velocemente: 1) Innalzare per tutti la qualità dell’istruzione e della formazione acquisita. Il tradizionale paradigma dell’elitismo gentiliano, quello dei pochi ma buoni, non basta più. Abbiamo bisogno di almeno la maggior parte, se non di tutti, buoni nei settori culturali e/o professionali in cui ciascuno può eccellere. 2) Formare persone che non operino in settori professionali protetti e a mandato quasi ereditario (i figli dei professori universitari che fanno i professori universitari, dei medici che fanno i medici, dei giornalisti che fanno i giornalisti, degli avvocati che fanno gli avvocati, e così via), ma che emergano da un confronto leale nel mare aperto della competizione. 3) Rendere sistematica la metodologia dell’alternanza scuola-lavoro a livello secondario e dell’apprendistato professionalizzante nelle Università, per legare sempre più teoria e pratica, formazione e territorio, affinché abbiano cittadinanza anche nel nostro paese il pensiero manuale e la cultura del lavoro, colpevolmente sviliti fino ad oggi nei processi formativi. 4) Valorizzare le competenze tecnico-scientifiche dei nostri giovani. È ormai lecito parlare di una vera e propria “emergenza tecnico-scientifica. La sproporzione tra le esigenze della competitività del paese nel settore scientifico–tecnologico e il tipo di preparazione scolastica e universitaria prevalente nelle generazioni che si affacciano al mondo del lavoro, deve essere colmata al più presto. A monte, l’Italia sconta una mai compiuta transizione alla modernità, che nel campo della ricerca si manifesta in una relativa debolezza dei settori scientifici e tecnologici, a vantaggio di quelli umanistico e delle scienze sociali. Settori in cui peraltro minori sono le necessità di investimenti strutturali (è più agevole affrontare un’offerta universitaria in questi settori), più abbondante è la disponibilità di personale docente, ma soprattutto più alti sono gli indici di ricettività consentiti negli Atenei: ne consegue una crescita della domanda e conseguentemente dell’offerta dei corsi di laurea in settori diversi da quelli scientifico-tecnologici.


Rilanciare l’Istruzione Tecnica
Ecco dove intervenire: a livello scolastico occorre rilanciare l’Istruzione Tecnica, incrementando il numero degli iscritti e di conseguenza attrarre più iscritti presso gli studi tecnologico-scientifici dopo il diploma di scuola superiore (l’Obiettivo 2 dell’Agenda di Lisbona: aumento del 15% di laureati in matematica, scienza o tecnologia). Anche per far sì che l’Italia si posizioni, come la Germania, nella fascia alta dei Paesi Ocse per laureati nelle discipline scientifiche; sul versante universitario, occorre rafforzare i Poli e i Distretti Tecnologici e ampliare la rete dei Politecnici.

Superare il valore legale del titolo di studio e introdurre i Campus



Il Rapporto Censis permette anche di argomentare su un quinto punto. 5) Infine abbiamo bisogno di introdurre elementi di stampo liberale nelle scuole e nelle Università e modificarne quindi la governance, favorendo lo sviluppo delle Fondazioni e prevedendo, nei fatti, il superamento del valore legale del titolo di studio, per promuovere una concezione più moderna del diritto allo studio. Ad esempio, la residenzialità nei Collegi universitari, modello Campus, oppure prestiti d’onore che, a prescindere dal costo delle tasse universitarie, premino i meritevoli e promuovano le eccellenze. Insomma, dobbiamo impegnarci a realizzare una vera “sussidiarietà orizzontale”, un’offerta differenziata, nel rispetto dei Lep nazionali e una “certificazione intelligente” delle competenze acquisite in tutti i livelli formativi, da intendere nel senso latino intus-legere, cioè leggere dentro la proposta formativa, che sia dunque trasparente rispetto ai percorsi di studio. In questo modo le scuole autonome e le Università diventeranno davvero “infrastrutture strategiche”, capaci di progettare il futuro dei territori, attraverso l’investimento non solo statale, ma di tutti quei soggetti interessati a scommettere sull’innovazione didattica e su una migliore qualificazione del capitale umano, partendo dalle vocazioni e dalle tradizioni di ogni singola comunità.


I giovani come protagonisti
Soprattutto i giovani dovranno essere testimoni di queste esigenze. La politica dovrà fare la sua parte per cambiare il volto alla scuola e all’Università, ma l’opinione pubblica dovrà sostenere i giovani che hanno voglia di cambiare il loro futuro e il futuro di un’Italia che merita un posto nel mondo nella cultura, nell’arte, nell’economia, nella finanza che le spetta di diritto.

Timori per il futuro?



Il Censis evidenzia anche la preoccupazione delle famiglie di fronte alla crisi: interpellati ad ottobre 2008, il 71,7% degli italiani pensa che il terremoto in corso possa avere delle ripercussioni dirette sulla propria vita, mentre solo il 28,3% dichiara di poterne uscire indenne: “una sensazione che colpisce trasversalmente” giovani e anziani, uomini e donne, al nord come al sud, secondo il Censis, “ma che risulta più profondamente avvertita da quei segmenti già duramente messi alla prova in questi ultimi anni come le famiglie a basso reddito e con figli” (è preoccupato l'81,3% delle famiglie con livello economico basso, contro il 66,2% delle famiglie con livello medio).

Obbligati a risalire
Un quadro a tinte assai fosche, dunque. Che tuttavia potrebbe mettere il Paese di fronte alla necessità di risollevarsi. Come nel Dopoguerra. O, meglio, come avvenne nell'intero trentennio tra il 1945 e il 1975 , con un Paese che ha mostrato di sapersi rimettere in moto. E non a caso il Censis parla di possibile nuova metamorfosi. Un fenomeno che «forse già silenziosamente in marcia, sommersa come tutti i processi innovativi che in Italia contano». Nonostante l'incertezza sulla profondità della crisi, la reazione e la difesa dal grande crack sarà innescata da immigrati, piccole e medie imprese, crescita della competitività, temperata gestione dei consumi e dei comportamenti, passaggio dall'economia mista pubblico-privata a un insieme «oligarchico di soggetti economici» come fondazioni, gruppi bancari, utility. - Imprese player globali - la crisi, secondo il Censis, «rimette inesorabilmente alla prova la struttura economica e produttiva italiana, dando spazio a percorsi originali di crescita».


Pil: Centro Nord vince l’Europa, il Sud frena
Secondo il Censis, l'Italia a due velocità si consolida: ed è questa la principale vulnerabilità del sistema italiano. Un dato è emblematico: il Pil pro-capite delle regioni del Centro Nord (29.445 euro) è più elevato di quello del Regno Unito (29.140), della Germania (28.068), della Francia (27.593) e della Spagna (26.519). Se si considera invece il Pil nazionale (17.046) il valore scende in modo significativo proprio per via dello “scarso apporto meridionale”. Nell'export di beni, sempre pro-capite, siamo già secondi solo alla Germania ma l'Italia del Centro-Nord supererebbe la media europea a 27 con 7.835 euro per abitante. Ed ancora. Nel Mezzogiorno i diplomati sono il 44% della popolazione di 25-64 anni (al Centro-Nord il 54,3%), 39 punti in meno della Germania (83,2%) e 23 in meno della Francia (67,4%). Il Centro-Nord, poi, registra un 2,4% di laureati in più; se si considerano i residenti di età 25-34 anni, il divario Nord-Sud sale al 4,7%.
CriminalitàStesso andamento anche in tema di criminalità: al Sud gli omicidi per 100 mila abitanti sono doppi rispetto al Centro Nord (1,6 contro 0,8) ma superiori anche a tutti i dati europei, in media 1,4 (Francia 1,4, Spagna 1,1, Regno Unito 1,5). Le regioni del Centro Nord hanno invece il primato dei decessi sulle strade: 9,4 morti in incidenti stradali ogni 100 mila abitanti contro i 7,2 del sud, gli 8,4 della Spagna, i 7,2 della Francia, i 6 della Germania.

Conclusioni: “non esageriamo con il pessimismo”
Ma proprio questi elementi di preoccupazione, avverte il Censis, sono in grado di innescare il cambiamento. Insomma, le ormai celebri “mucillagini” del Rapporto Censis 2007 potrebbero partire dal “panico” scatenato dalla crisi finanziaria del 2008 per avviare la grande trasformazione, a patto però che si scelga di non adagiarsi e di non limitarsi a un adattamento alla nuova situazione, atteggiamento nel quale gli italiani sono maestri. “Non esageriamo col pessimismo - ha avvertito il presidente del Censis, Giuseppe De Rita - perché poi spesso le profezie di avverano. Che ci sia una difficoltà reale è indiscutibile, però c'é anche un senso di adattamento delle famiglie e delle imprese, che in qualche modo risistemano le loro strategie dei consumi”. E che ci sia una certa solidità del sistema Italia, spiega, è confermato anche dal fatto che il governo ha deciso di fare un “intervento minimale, col bilancino, una cura omeopatica: evidentemente la perizia e intelligenza del titolare dell'economia conta sul fatto che il sistema ce la possa fare”. “Il vero problema - ha aggiunto - non è adesso, perché tutto sommato non si vedranno a Natale grandi differenze in termini di consumi e di occupazione, ma comincerà a febbraio-marzo, quando finirà il ciclo di propensione alla spesa delle festività natalizie e arriverà la bassa stagione, e lì se non ripartiranno alcuni mercati, da quello tedesco a quello cinese a quello indiano, le imprese italiane potrebbero avere dei problemi, con ripercussioni sulla produzione e sull'occupazione. Finora la capacità di controllo c'è”. La crisi, secondo il Censis, è quindi un'opportunità di rimettere in sesto i propri processi: “per le imprese, perché molte di loro avevano bisogno di una ristrutturazione produttiva, organizzativa, basti pensare alle banche che erano cresciute troppo in fretta e avevano creato valore attraverso vendita di prodotti non bancari, e che oggi devono ristrutturare, probabilmente hanno degli esuberi notevoli, e la crisi copre, fornisce un alibi alla ristrutturazione”. “Dall'altra parte - continua De Rita - c'é una modifica del sistema sociale italiano che porta a pensare che stiamo usando lentamente, silenziosamente la crisi per operare una nuova metamorfosi. Che è quella di metter dentro 4 milioni di immigrati, di creare poli urbani nuovi, di garantire un nuovo potere alle donne, di creare una oligarchia economica invece che un pendolo tra stato e mercato. Cioé, stiamo riorganizzando anche i nostri valori di riferimento sociale, e questo è un bene”. Resta da vedere, ha avvertito De Rita, se il Paese “avrà l'orgoglio di recuperare la sua progettualità”.

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