6 marzo 2009

Africa, spiragli e sgomenti

Africa, spiragli e sgomenti
di Roberto Maurizio
Una donna del Darfur (foto Afp)


La mescolanza, il melange
Vent’anni fa, il mondo, come l’Italia, era più “trasparente” e più ingiusto. Esisteva il Nord e i Sud del mondo. I paesi ricchi e i paesi poveri. Esisteva l’Est e l’Ovest. I paesi democratici e i paesi comunisti. Mentre in Italia, c’era la Destra, il Centro Destra, il Centro, il Centro Sinistra e la Sinistra. Oggi, è tutto cambiato: prevale il melange, la mescolanza. Molti ex paesi poveri del Sud del mondo sono entrati a far parte del Gruppo dei Venti (tra, gli altri, la Cina, l’India e il Brasile), molti ex paesi dell’Est comunista fanno parte dell’Unione Europea. Molti ex democristiani si trovano a destra, al centro e a sinistra; molti socialisti sono a destra, al centro e a sinistra; molti comunisti stanno a destra, al centro e a sinistra. L’estrema sinistra, in Italia e nel mondo è ridotta al lumicino. Sta per scomparire anche a Cuba e sta cambiando in Corea del Nord. Resta e si radica in Venezuela e in Puglia.



Alle falde del Kilimanjaro



Solo l’Africa, apparentemente, è rimasta ferma nel suo sottosviluppo. Eppur si muove! Qualcosa sta cambiando nel Continente Nero, da vent’anni a questa parte. Lentamente. I cinesi sono gli autori di quest’evoluzione. Molti osservatori occidentali si scagliano contro l’imperialismo della Cina in Africa. Guarda da dove arriva la predica! Il principale vulnus dell’Africa sono le guerre generate prevalentemente da lotte intestine tra diverse etnie, gruppi tribali e religiosi. Sono 21 i paesi dell’Africa nera ad aver subito guerre civili e devastazioni negli ultimi 30 anni (Angola, Burundi, Repubblica Centroafricana, Ciad, Repubblica democratica del Congo, Repubblica del Congo, Costa d'Avorio, Djibouti, Eritrea, Etiopia, Ghana, Guinea, Guinea-Bissau, Liberia, Niger, Nigeria, Ruanda, Senegal, Sierra Leone, Sudan, Uganda). Se aggiungiamo anche Algeria e Sudafrica a questi paesi, i conflitti in Africa dal 1990 al 2005, secondo gli autori della ricerca “Africa’s missing billions”, il costo totale dei conflitti ha toccato in questo periodo i 199,80 miliardi di euro, una cifra del resto sicuramente sottostimata. Una cifra enorme! La somma si riferisce al totale dei costi legati in modo diretto ai conflitti.

Mettiamo dei fiori nei vostri Kalashnikov

Una ragazza del Darfur (foto Afp)

Nei 200 miliardi di euro si conteggiano soltanto le strutture distrutte, i costi medici e quelli legati agli sfollati. Poi ci sono gli altri, non conteggiati, a cominciare da quelli sostenuti dai paesi confinanti: gestione della popolazione in fuga, difficoltà o paralisi degli scambi commerciali, instabilità politica. Se sono quindi quasi 300 miliardi i costi "vivi" dei conflitti africani molti altri si perdono negli "effetti collaterali". Per esempio i mancati introiti: il ministro del turismo sudafricano, citato nel rapporto, ha stimato in quasi 22 milioni i turisti che hanno rinunciato a visitare il paese per paura delle violenza in soli cinque anni. I combattimenti sostenuti nei 15 anni esaminati nella ricerca, salvo qualche rarissima eccezione, sono sempre avvenuti con scontri a fuoco tradizionali, dove le armi leggere erano le uniche in dotazione ai belligeranti. Una in particolare: il Kalashnikov Ak-47. E questo fucile automatico, per il 95% dei casi, è sempre arrivato dall'estero. Le fabbriche principali che producono questo tipo di armi si trovano in 13 paesi: in Europa, in Asia e in America Latina. In Africa, solo Egitto e Sudafrica hanno aziende che producono delle copie del Kalashnikov, in particolare il modello Misr e i Vektor R4 e R5. E lo stesso discorso vale per proiettili, caricatori, e in genere tutti i componenti di questo tipo di armi.

Un Continente buio



Le forze di Peacekeeping Onu - Oa (foto Afp)

L'Africa resta un continente “nero” e diventa sempre più “buio”, dove è meglio non andare a guardare. Le dimensioni dei guadagni nel mercato delle armi rappresenta un freno micidiale alla reale attuazione dell'"Arms Trade Treaty" ( Trattato sul controllo del commercio delle armi) al quale sta da tempo lavorando l'Onu. Nel solo Mozambico, su 15 milioni di abitanti, si stima siano disponibili circa 10 milioni tra fucili, mitragliatrici, pistole ed altre armi, che provengono tutte dal di fuori del continente, salvo una piccola percentuale fornita dal Sudafrica. Nel rapporto si evidenzia un confronto, all'interno del Continente africano, tra la situazione dei paesi coinvolti nei conflitti e gli altri. La mortalità media infantile registrata nei primi è del 50% più elevata, così come i casi di denutrizione sono più numerosi del 15%. Secondo i dati di una ricerca del 2007 firmata dalla Banca Mondiale, citata nel rapporto Africa's missing billions, l'aspettativa di vita media nei paesi africani in guerra è di 48 anni mentre negli altri è di 53.

Prima di Obama, Ellen

Ellen Johnson Sirleaf (foto speakerimmage)

Ellen Johnson Sirleaf, economista, è la prima donna Presidente di una nazione africana, la Liberia, la prima donna nera a dirigire uno Stato con tanti problemi. La prima donna nera, ancor prima di Obama, a ricoprire una carica così prestigiosa- Ellen è Presidente rispettata e amata di un paese dove il signore della guerra Charles Taylor rovesciò Samuel Doe dando il via a 14 anni di ininterrotta guerra civile. E' lei che ha firmato l'introduzione al Rapporto “Africa's missing billions”. «Sono da sempre preoccupata per la devastazione dell'economia africana prodotta dalle guerre. Con la mostruosa cifra persa nei conflitti, in questi anni avremmo potuto debellare l'Aids e sarebbero avanzati fondi sufficienti per construire scuole e ospedali e portare così la media del continente a un livello di istruzione e sanità accettabili. Nel mio paese, ad esempio, il conflitto ha quasi totalmente dilapidato le risorse minerarie e agricole. Siccome praticamente tutte le armi impiegate nelle guerre dell'Africa arrivano da fuori io rivolgo un nuovo appello ai governi del Mondo affinché lavorino al Trattato sul controllo del commercio delle armi, trovino finalmente un accordo e lo applichino. E' un primo indispensabile passo - conclude Ellen Johnson Sirleaf - per ridurre la violenza in Africa e nel resto del Mondo. I danni che le guerre causano devono essere chiari a tutti».

La donna di ferro
La Presidente della Liberia (foto Afp)

Ellen Johnson Sirleaf (Monrovia, 29 ottobre 1938) è la prima donna nera nel mondo eletta Capo di Stato. Spesso, viene chiamata con l'appellativo di "Signora di ferro". Tre dei nonni di Johnson-Sirleaf erano indigeni liberiani; il quarto era un tedesco che sposò una donna del mercato rurale. Il nonno fu costretto a lasciare il paese quando la Liberia — per lealtà verso gli Stati Uniti — dichiarò guerra alla Germania nel 1917. Johnson-Sirleaf si diplomò al College of West Africa (Monrovia), una scuola superiore della Chiesa Metodista Unita. Conseguì il Bachelor of Busness Administration in contabilità al Madison Business College a Madison, nel Wisconsin nel 1964, un diploma in economia presso l'Università del Colorado nel 1970, ed il Master of Public Administration presso l'Università diHarvard nel 1971. Tornata in Liberia dopo il periodo ad Harvard, Johnson-Sirleaf divenne Assistant Minister delle Finanze sotto l'amministrazione di William Tolbert. Nel 1980, Tolbert fu rovesciato e ucciso dal sergente dell'esercito Samuel Doc, il quale pose fine a decenni di relativa stabilità. Doe rappresentava il gruppo etnico dei Krahn e fu il primo presidente liberiano non discendente della élite rappresentata dalla comunità degli ex-schiavi americani. Nel decennio che seguì, Doe permise ai Krahn di dominare la vita pubblica. Dopo il rovesciamento di Tolbert, Johnson-Sirleaf andò in esilio a Nairobi, in Kenia, dove lavorò per la Citibank. Tornò per partecipare alle elezioni del Senato della Liberia nel 1985, ma quando accusò pubblicamente il regime militare di Doe (People’s Redemption Council) fu condannata a dieci anni di prigione. Rilasciata dopo poco tempo, si trasferì a Washinghton. Tornò in Liberia nel 1997 nel ruolo di economista, lavorando per la Banca mondiale e per la Citibank in Africa.

Leader del Partito dell’Unità
Ellen Johnson Sirleaf (foto speakerimmage)

Dopo aver inizialmente supportato la sanguinosa ribellione di Charles Taylor contro il presidente Doe del 1990, si oppose a Taylor, e corse contro di lui alle elezioni presidenziali del 1997. Raggiunse solo il 10% dei voti, contro il 75% di Taylor. Questi la accusò di tradimento. Johnson-Sirleaf fece una campagna per la rimozione di Taylor dalle sue funzioni, giocando un ruolo attivo nel governo di transizione, mentre il paese si preparava per le elezioni presidenziali del 2005. Con la partenza di Taylor, tornò ad occupare il ruolo di leader del Partito dell’Unità. Nel primo turno delle elezioni del 2005, giunse seconda con 175.520 voti, arrivando così al ballottaggio dell'8 novembre contro l'ex-calciatore George Weah. L'11 novembre, la Commissione Elettorale Nazionale della Liberia dichiarò Johnson-Sirleaf presidente eletto della Liberia. Il 23 novembre, confermò la sua decisione sostenendo che Johnson-Sirleaf aveva vinto con un margine pari quasi al 20% dei voti. Osservatori indipendenti, internazionali, regionali e nazionali, dichiararono che il voto era libero, corretto e trasparente. L'insediamento ebbe luogo il 16 gennaio 2006; tra i partecipanti stranieri alla cerimonia vi furono Condoleeza Rice e Laura Bush.

Liberia: faro spledente

La donna di ferro (foto speakerimmage)

Il 15 marzo 2006, la presidentessa Johnson-Sirleaf si rivolse alle camere riunite del Congresso degli Stati Uniti, chiedendo il supporto americano per aiutare il suo paese a “divenire un faro splendente”, un esempio per l'Africa e per il mondo di cosa può ottenere l'amore per la libertà. Nel Governo della Liberia rimangono tuttavia molti seguaci dell'ex presidente Taylor. Edwin Snowe, attuale presidente del Parlamento liberiano (terza carica di governo), è il genero di Taylor e aveva una posizione importante nel suo governo. La moglie separata di Taylor, Jewel Howard Taylor, è nel parlamento, così come Prince Johnson, autore della raccapricciante tortura e dell'uccisione del presidente Samuel Doe (che, tra l'altro, sono registrate in un filmato di ampia distribuzione). Ciò nonostante, il 17 marzo 2006, la presidentessa Johnson-Sirleaf ha sottoposto alla Nigeria una richiesta ufficiale di estradizione per Taylor. Johnson-Sirleaf è madre di quattro figli (due vivono negli Stati Uniti e due in Liberia) e ha sei nipoti, alcuni dei quali vivono ad Atlanta.

Intanto in Sudan…

Il Presidente sudanese al-Kashir (foto Afp)


Le guerre fratricide continuano a insanguinare l’Africa. La Somalia, ex colonia italiana, è quella che, attualmente, sta subendo le maggiori atrocità senza nessun supporto esterno, né dei media né dei politici (che è la stessa cosa). Il Darfur è costretto a sofferenze inaudite. Il mandato di cattura per il Presidente Omar Hasan Ahmad al-Bashir ha diviso il mondo. Russia, Cina, Lega Araba si sono schierati in favore del presunto mandante del massacro di circa 300.000 vittime nel Darfur e contro la sentenza emessa dalla Corte internazionale penale (Cpi). Khalil Ibrahim il capo del Jem (Justice and Equality Movement) si è dichiarato soddisfatto del verdetto della Cpi ed ha minacciato di catturare il Presidente al-Bashir: «Lui non si consegna? Benissimo andremo a prenderlo noi nel suo palazzo.

al-Kashir (foto Afp)

Non siamo sufficientemente forti, dicono? Lo faremo vedere. Questa decisione della Corte ci rafforza, ma ci rafforzano ancora di più le stupide posizioni dei capi africani e dei leader dei Paesi arabi, che invece di difendere la popolazione civile difendono i criminali». «Quelli che si sono schierati a favore di Bashir – continua Khalil – sono leader che hanno massacrato la propria gente. Molti hanno le mani sporche di sangue. Non potevamo aspettarci che accettassero l’incriminazione di uno di loro. La maggioranza di questi signori dovrebbe essere portata davanti alla Corte per essere giudicata di massacri perpetrati ai danni di civili inermi. Per loro la decisione presa all’Aja è un forte e deciso monito perché la finiscano con efferati massacri».


Bashir un criminale sostenuto da criminali


Khalil Ibrahim, capo dei Jem (foto Afp)

«Con l’incriminazione, al-Bashir ha perso ogni parvenza di legalità e di credibilità. Con lui ogni possibilità di accordo è finita. E’ un criminale e così andrebbe trattato da tutti. Noi stavamo negoziando la pace a Doha, in Qatar, ma con un crudele così abbiamo deciso di non parlare. Trattare con un tiranno? No. Lancio un appello al Consiglio di Sicurezza perché non tenga conto delle richieste di posporre l’entrata in vigore del mandato di cattura. Una decisione di questo tipo ridarebbe fiato a tutti i dittatori che oggi hanno ammorbidito la mano per paura di essere giudicati. Se dovessero essere certi dell’impunità ricomincerebbero a usare il pugno di ferro». «Deludente anche la Lega Araba, un vero “Club dei Dittatori”. Tutti presidenti che fanno i loro interessi, non quelli della gente. Ecco perché si schierano contro le popolazioni. Per loro un massacro vale l’altro. Non vogliono giustizia, ma solo difendere i loro interessi. Dovrebbero vergognarsi e noi glielo ricordiamo a chiare lettere: state proteggendo un criminale. Non rappresentate nessuno, tranne le vostre famiglie che si sono arricchite a dismisura ai danni della vostra stessa gente. I vostri popoli sono oppressi e voi siete gli oppressori. La comunità internazionale democratica non si faccia intimidire: come si fa a parlare della necessità di un miglioramento delle condizioni di vita degli africani se poi le vite degli africani sono in mano a questa gente? Cacciare tiranni come Bashir significa salvare vite umane. Lasciarlo al potere vuol dire avallare i suoi omicidi e le sue pulizie etniche. Noi abbiamo assicurato alla Corte Penale Internazionale la massima collaborazione e dimostreremo, carte alla mano, che deve essere ripescata anche l’accusa di genocidio. Noi sappiamo che questo signore ha dato precisi ordini di bruciare villaggi, stuprare le donne, avvelenare le acque dei pozzi, per distruggere e annientare intere tribù. Non si chiama forse tutto questo genocidio?» (continua)

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