4 marzo 2009

Mandato di cattura per al-Bashir

Mandato di cattura per Omar Hasan Ahmad al-Bashir
di Roberto Maurizio
Il Presidente del Sudan Ahmad al-Bashir (foto http://www.altrenotizie.org/)

I sette reati capitali
Oggi, 4 marzo 2009, la Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja ha emesso il mandato di arresto nei confronti del Presidente del Sudan, Omar Hasan Ahmad al-Bashir, per crimini di guerra nel Darfur, ma ha scartato, per il momento, l'accusa di genocidio. Di arresto del Presidente si parlava ormai da diversi mesi, dal 14 luglio 2008, quindi la notizia non ha colto di sorpresa al-Bashir. Questo di oggi, e iI primo mandato di arresto emesso dalla Corte nei confronti di un capo di Stato in carica ed è il primo in assoluto nella storia dell’umanità. Sette i reati contestati ad al-Bashir: cinque per crimini contro l'umanità (uccisioni, sterminio, trasferimento forzato, torture e stupri) e due per crimini di guerra (attacco intenzionale contro la popolazione civile e saccheggi). La maggioranza della Camera della Corte non ha invece accolto, come abbiamo già detto, la richiesta di genocidio che era stata inclusa nell'atto di imputazione del procuratore della Cpi, Luis Moreno-Ocampo.

Il Procuratore Luis Moreno-Ocampo

La reazione del Sudan




La reazione di Khartoum non si è fatta attendere. Immediatamente, la televisione di Stato ha bollato come “neocolonialista” la decisione della Corte. Nella capitale sudanese centinaia di persone sono scese in strada a sostegno del Presidente formalmente incriminato, con cartelli di protesta e urlando slogan contro li giudici dell’Aja. Da un palco gli oratori hanno lanciato insulti al Procuratore Louis Moreno-Ocampo, ai magistrati della Corte e in genere contro l’Occidente, mentre una folla inferocita bruciava un fantoccio che raffigurava il Procuratore della Csi. Poco dopo sono arrivati i primi provvedimenti di rivalsa: il Governo di Khartoum ha subito espulso dal Sudan dieci organizzazioni internazionali, tra cui Msf (Medici senza frontiere), accusandole di cooperazione con la Corte Penale Internazionale. Si teme ora che vengano messe in atto rappresaglie anche verso i funzionari dell’Onu che lavorano nel Paese, 32 mila persone tra staff internazionale nazionale. La cifra comprende però 25 mila caschi blu, dislocati in Darfur ma soprattutto in Sud Sudan.


Le milizie filogovernative. Gli Janjaweed: "diavoli a cavallo"


Timori per gli italiani


Mons. Leo Boccardi, Arcivescovo di Khartoum


Gli italiani in Sudan sono 500, di cui 300 a Khartoum. Tra di loro c’è anche l’Arcivescovo di Khartoum, Mons. Leo Boccardi, e Pier Albino Previdi tecnico italiano arrestato nel Sud Sudan che è stato imprigionato n un carcere di Juba. L'odissea del tecnico 64enne di Marrani, in provincia di Firenze, ha preso il via il 19 febbraio in seguito alla denuncia di un'azienda locale, che sostiene di essere stata pagata con assegni non onorati dalla società per cui Previdi lavora come consulente tecnico, l'italiana «Cec International». Dopo un primo arresto, il tecnico è stato scarcerato e messo sotto sorveglianza, fino a essere ricondotto in carcere il 2 marzo. Tommaso Previdi, figlio di Pier Albino, spiega ad Aki-Adnkronos International di essere riuscito a parlare mercoledì mattina al telefono con il padre, che è stato condotto per pochi minuti fuori dalla cella che condivide con altre 45 persone per incontrare il console francese a Juba. Il Diplomatico è stato coinvolto nei negoziati per la soluzione del caso visto che l'Ambasciata italiana, in prima linea nei colloqui con le autorità sudanesi, non dispone di una sede a Juba. «Mi ha parlato con una voce molto sottile - spiega il figlio Tommaso - l'ho trovato molto preoccupato e scoraggiato, temo enormemente per le sue condizioni di salute». «Sino a oggi abbiamo lasciato che la diplomazia facesse il suo corso, al fine di agevolare i negoziati tra le due aziende - dichiara Tommaso Previdi -. Adesso, subito, occorre passare a uno stadio superiore, di maggiore durezza e perentorietà, al solo fine di salvare la vita di mio padre. Ogni ora che passa - prosegue - può compromettere definitivamente la salute sempre più cagionevole di mio padre». L'uomo, infatti, soffre di gravi problemi cardiaci, per i quali deve assumere quotidianmente alcuni medicinali. «Ci aspettiamo che le massime cariche del Governo intervengano immediatamente - aggiunge -. Ricordo infatti che mio padre si trova in queste condizioni per colpe che non ha, non avendo neppure sottoscritto i due assegni emessi dall'azienda italiana per cui lui, ricordo, è solo un consulente tecnico». Per Tommaso Previdi, infine, è fondamentale che la vicenda umana di suo padre, «ingiustamente incarcerato, con modalità al limite del rapimento», vada tenuta distinta da quella patrimoniale e commerciale che vede in contrasto le due aziende. Già nel luglio 2008 la Cec aveva invitato Pier Albino Previdi a lasciare il Paese. E’ quanto precisa la stessa società in una nota, spiegando di aver «invitato - in quel periodo - il consulente a lasciare il Sud Sudan, divenuto inospitale». «Quanto alle condizioni di salute - scrive ancora la società - l’azienda, come per prassi, ha richiesto prima della partenza per il Sud Sudan che il signor Previdi eseguisse tutti gli accertamenti diagnostici sul proprio stato di salute». «Ciononostante - prosegue l’azienda - la Cec si sta adoperando strenuamente, anche per il tramite delle autorità diplomatiche in più battute, per negoziare i rapporti commerciali in essere con la società sudanese, artefice dell’ingiusta privazione, ponendo quale «condicio sine qua non» l’immediato rimpatrio del signor Previdi.

Un rifugiato del Darfur (foto di Roberto Maurizio)

I dettagli delle accuse contro al-Bashir

Profughi del Darfur a Roma, 2008 (foto di Roberto Maurizio)

Secondo le accuse, “il Presidente sudanese controlla tutto l’apparato dello Stato e usa questa sua influenza per coprire la verità e proteggere i suoi subordinati e la loro smania di genocidio”. Si calcola che in Darfur siano state ammazzate 300 mila persone e che due milioni siano stati costretti a scappare dalle loro case. Al-Bashir già mesi fa si è rifiutato di consegnare due sospetti di genocidio: il ministro per gli affari umanitari, Ahmad Harun, e uno dei capi delle feroci milizie filogovernative, i janjaweed (i diavoli a cavallo), Ali Khashayb. L’incriminazione di al-Bashir è stata sostenuta anche da uno dei leader storici del Continente africano, l’Arcivescovo anglicano sudafricano Desmond Tutu che ieri in un editoriale sul New York Times ha sottolineato con forza: «Poiché le vittime sono africane, i leader africani devono sostenere con determinazione la richiesta di vedere i responsabili perseguiti». Per altro con un plateale gesto di sfida, ieri il Presidente sudanese è apparso in televisione mentre danzava e scherzava con i suoi sostenitori durante una manifestazione a suo favore nel nord del Paese, la zona da cui lui proviene. L’emittente ha fatto vedere il momento in cui i dimostranti bruciavano una grossa fotografia di Moreno-Ocampo: «Decideranno mercoledì – ha poi detto ai microfoni Al Bashir -. Ebbene noi gli diciamo di immergersi nell’acqua e di berla tutta”, una frase idiomatica araba che si usa per mostrare il massimo disprezzo. In questi mesi il governo sudanese ha reagito con spregio alla richiesta di Moreno-Ocampo di procedere verso al-Bashir: «Il procuratore è un criminale – aveva sentenziato senza mezzi termini Abdalmahmood Mohamad, ambasciatore all’Onu, subito dopo la richiesta di rendere esecutivo il mandato di arresto -. La motivazioni sono politiche e poi non riconosciamo quel tribunale».

Lobbies sioniste
In attesa della decisione odierna dei giudici, il 21 febbraio scorso, Salah Gosh, capo dei servizi di sicurezza e di intelligence del Sudan, aveva lanciato una minaccia: «Ci consideravano estremisti islamici, poi siamo diventati moderati e civilizzati credendo nella pace e nella vita per ciascuno. Potremmo tornare al passato estremismo, se fosse necessario. Non esiste nulla di più facile». Gosh aveva accusato la Cpi di essere manovrata da “lobbies sioniste” e ha ricordato che il Sudan considera un crimine aiutare la Corte penale internazionale: «Tutti coloro che collaboreranno con essa saranno arrestati per essere processati». Esam Elhag, portavoce del gruppo ribelle Sla (Sudan Liberation Army) è soddisfatto: «E’ il primo passo verso la giustizia che stiamo aspettando dal 2003 quando è cominciata la pulizia etnica. Quel giorno lo stesso al-Bashir ha ammesso: “Non voglio né prigionieri né feriti”. Quello di Ocampo è il primo passo verso la giustizia. Un atto che può lenire i sentimenti di vendetta che nutre la gente del Darfur».

Miryam, madre stuprata a turno


Antonella Napoli (foto di Roberto Maurizio)


Antonella Napoli, Presidente di Italians for Darfur, organizzazione che ha promosso e sostenuto vari progetti nella disgraziata regione del Sudan Occidentale, ha scritto un libro, “Volti e colori del Darfur”, Edizioni Gorée, dove sono raccolte terribili testimonianze sulle violenze contro i civili. Eccone una, tratta dal volume che sarà presentato in aprile proprio in occasione della Giornata Mondiale per il Darfur. E’ la storia di Miryam, scappata nel campo rifugiati di Al Salam. La donna che non ha neanche una tenda per proteggere se stessa e il suo bimbo di pochi mesi, non conosce le ragioni della guerra tra i movimenti ribelli del Darfur e il governo di Khartoum, ma ricorda com’erano quelli che hanno distrutto il suo villaggio e l’hanno violentata. «Gente armata, arabi. Mi hanno buttata a terra, strappato i vestiti e mi hanno stuprata a turno. Sono svenuta». Non ricorda altro, ma di una cosa è certa: “Noi del Darfur li riconosciamo subito i predoni che vengono dal Nord. Sono cattivi e a noi donne fanno cose orribili, peggio di ogni cosa...”. Poi parla del marito. «E' scomparso tre mesi fa - racconta – due settimane prima che partorissi. Non mi ha più voluta. Non so se è stato ucciso, non m’importa. Ora sono sola con il mio bambino e ho paura. Ma voglio che la gente sappia, voglio che chi è nel vostro e in altri paesi potenti non permettano che succedano ad altre ragazze quello che è successo a me». La decisione della Corte, comunque, non sembra potrà avere un effetto pratico. Appare assai improbabile che il presidente sudanese, andato al potere con un colpo di stato il 30 giugno 1989, venga tradotto in carcere all’Aja. A meno che la pressione internazionale non provochi un cataclisma nello stesso Sudan e un cambio di regime a Khartoum.

Manifestazione pro-Darfur a Roma, 2008 (foto di Roberto Maurizio)

Le reazioni dei paesi a favore del Presidente sudanese
Come all’interno del paese, anche fuori dal Sudan, il mandato d'arresto per Bashir non piace a tutti. L'Unione Africana teme che «possa minare la pace nella regione» e i ministri degli esteri dei 22 Paesi aderenti alla Lega Araba, al Cairo per una riunione preparatoria del prossimo Vertice arabo di Doha, hanno appena deciso di tenere una riunione straordinaria per esaminare i riflessi del mandato di cattura e adottare una risoluzione in merito. L'Egitto intanto ha chiesto al Consiglio di sicurezza dell'Onu di «rinviare l'incriminazione» e per voce del ministro degli Esteri Ahmed Abul Gheit si è detto «molto preoccupato» per la decisione della Corte penale, «il Consiglio di Sicurezza si assuma le sue responsabilità nel mantenimento della pace e della sicurezza in Sudan».


La Russia
Critica anche la Russia: per l'inviato di Mosca per il Darfur, Mikhail Margelov, si tratta di «una decisione intempestiva»: «L’inopportuna decisione della Cpi crea un precedente pericoloso per il sistema delle relazioni internazionali e rischia di avere conseguenze negative per il Sudan». Margelov ha aggiunto: «Certamente i responsabili di crimini di guerra e di genocidio in Sudan devono subire la giusta punizione, indipendentemente dal loro incarico. Tuttavia non capisco il criterio seguito dalla giustizia dell'Aja. Perché incriminare solo il presidente el Bashir mentre si lasciano impuniti i rappresentanti delle formazioni ribelli. Forse le parti in conflitto in Sudan non sono sullo stesso piano?».

La solidarietà di Hamas
Una condanna della decisione dell'Aja arriva anche da Hamas con Taher A-Nunu, esponente di Hamas a Gaza, che definisce «ingiusta» e «politica» la decisione della Cpi ed esprime la solidarietà del movimento islamico con Bashir e col popolo sudanese.

Gli appelli dei paesi contro il Presidente sudanese
Per gli Stati Uniti, che pure non hanno firmato il Trattato istitutivo della Cpi, invece è giusto processare Bashir: «Gli Usa ritengono che chi ha commesso atrocità debba risponderne in tribunale», ha dichiarato il portavoce del Dipartimento di Stato, Robert Wood, però invitano alla moderazione tutti i partiti sudanesi. «Lanciamo un appello a tutte le parti coinvolte, tra cui il governo sudanese. Altre violenze contro i civili e gli interessi stranieri devono essere evitate e non saranno tollerate» ha aggiunto Wood. Il governo francese ha lanciato un appello affinché Khartoum cooperi. Parigi «ha chiesto con forza» al Sudan di «cooperare a pieno» con la Cpi, ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri, Eric Chevallier. Esultano le organizzazioni per i diritti umani: per Human Rights Watch ora «neppure i presidenti sono garantiti per i loro orribili crimini».

Conclusioni


Il Ministro Angelino Alfano e il Presidente Silvio Berlusconi

Fermo restando le accuse della Cpi sulle atrocità di un dittatore spietato come al-Bashir, occorre parimenti sgombrare il campo da due dubbi. La prima perplessità sulla vicenda sudanese è stata sollevata da Antonio Cassese, ex Presidente della Commissione di inchiesta sul Sudan per la vicenda del Darfur. In un’intervista telefonica rilasciata al Corriere della Sera di oggi, Cassese sostiene che secondo i paesi africani esistono "due pesi e due misure" nella comunità internazionale: i crimini commessi dalle potenze occidentali non vanno davanti alla Corte penale (ad esempio, i casi di tortura accertati in molti recenti conflitti), mentre i crimini commessi in Africa vengono immediatamente sottoposti al giudizio della Corte e ai commenti violenti dei media occidentali. La Corte, infatti, secondo Cassese, attualmente si sta occupando solo di quattro paesi africani. Il secondo cruccio è il seguente: mutatis mutandis, perché mai in Italia, che fa parte dell’Onu e dell’Unione Europea, esiste il “Lodo Alfano”, ossia la legge 124/08, che rende immune le quattro alte cariche istituzionali (Presidente della Repubblica, Presidente del Senato, Presidente della Camera e Presidente del Consiglio)? Delle due una: o è sbagliato il lodo Alfano o sta sbagliando la Corte penale internazionale. Sic rebus stantibus.

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