In questa magnifica “Patria” ci si divide su tutto. Guelfi e ghibellini, monarchici e repubblicani, repubblichini e partigiani, fascisti e comunisti, berlusconiani e antiberlusconiani, leghisti e meridionalisti, finiani e antifiniani, laziali e romanisti, santoristi e antisantoristi, interisti e milanisti. Vuol dire che l’Italia, in cui si discute e si litiga in continuazione, è un paese dove, perlomeno, non ci si annoia. Ma, se dopo 150 anni non si riesce ancora a mettersi d’accordo nemmeno sulla “figura storica” di Garibaldi è il massimo della goduria della lite a tutti i costi. Ci si scontra finanche sulla località in cui Garibaldi pronunciò la storica frase “Saluto il Primo Re d’Italia”! E’ ancora lotta dura su quello storico “incontro di Teano” (26 ottobre 1860) che, in passato si era tradizionalmente ritenuto che fosse avvenuto presso il ponte di Caianello, odierno ponte San Nicola, nella frazione di Borgonuovo (Teano). La precisa località in cui l'incontro è avvenuto è tuttavia tuttora oggetto di dibattito: alcuni storici si basano infatti sulla maggior parte dei documenti che riportano come luogo dell'incontro il bivio di Taverna della Catena, nella vicina Vairano Scalo, frazione del comune di Vairano Patenora, mentre secondo altre testimonianze luogo dell'incontro sarebbe stato il ponte di Caianello. Molti lati oscuri permangono da chiarire. Quello che però è certo che alcuni “luoghi comuni”, alcune “leggende metropolitane”, riprodotte in film dozzinali di quarta categoria dalla Rai, dovrebbe essere ritirate dal “mercato” culturale, perlonemo durante le celebrazioni del 150 anniversario che scoccherà impietosamente nel 2011.
La spedizione dei Mille
Proviamo a ripercorrere la storia. La sera del 5 maggio 1860 Garibaldi si imbarcava dallo scoglio di Quarto (oggi un quartiere di Genova). I circa 1162 volontari erano armati di vecchi fucili e privi di munizioni e di polvere da sparo. Queste ultime vennero recuperate (insieme a tre vecchi cannoni ed un centinaio di buone carabine) il 7 maggio presso la guarnigione dell'Esercito del Regno di Sardegna di stanza nel forte di Talamone. Una seconda sosta fu effettuata il 9 maggio a Porto Santo Stefano, per rifornimento di carbone. Formalmente Garibaldi ottenne le une e l'altro poiché le aveva pretese nella sua qualità di maggiore generale del Regio Esercito. Ma è evidente che non avrebbe potuto nemmeno partire senza il consenso di Cavour. Un episodio è in questo senso rivelatore: a Talamone, proprio sotto gli occhi della guarnigione, vennero staccati 64 volontari a preparare un'azione verso l'Umbria e le Marche. In capo a pochi giorni vennero intercettati dal Regio Esercito e reimbarcati per la Sicilia: Pio IX non doveva essere ancora provocato e Garibaldi doveva essere pur sempre ben controllato. Oltre ai 64 volontari staccatisi dal viaggio, 9 mazziniani abbandonarono la spedizione, mentre i restanti 1089 proseguirono nel viaggio. All'alba dell'11 maggio i due vapori passavano fra Favignana a e Marettimo e, grazie alle informazioni ricevute da un pescatore locale sulla temporanea assenza della marina borbonica che da Marsala si era spostata a sud-est in direzione di Sciacca alla ricerca dei due vapori di rivoltosi, puntarono verso il porto di Palermo.
Nessun molisano e nessuno della Valle d’Aosta
I Mille erano, secondo Wikipedia, 1.089 garibaldini. 435 della Lombardia, 163 liguri, compresi tre della nizzardi, 151 veneti, 11 del Trentino, uno dell’Alto Adige, 21 del Friuli, 29 piemontesi, 39 dell’Emilia e Romagna, 82 della Toscana, 5 umbri, 11 marchigiani, 9 del Lazio, uno dell’Abruzzo, 17 della Campania, 21 calabresi, 4 pugliesi, uno della Basilicata, 42 siciliani e 3 della Sardegna. Mancano all’appello i molisani e quelli della Val d’Aosta. C’era solo una donna.
Operazioni in Sicilia
I comandanti borbonici, ignorando le segnalazioni dei servizi di informazione napoletani avevano spostato, appena un giorno prima dello sbarco, una consistente guarnigione da Marsala a Palermo, per far fronte alle insurrezioni verificatesi nel capoluogo. Questo cambiamento, però, che fosse stato fatto in buona o in mala fede (come si sostenne), fu fatale. Infatti le navi garibaldine sbarcavano tranquillamente a Marsala la mattina dell'11 maggio. Due navi da guerra borboniche, giunte nel frattempo, tardarono a bombardare gli invasori, forse perché incerte circa le intenzioni di altre due navi da guerra britanniche presenti nel porto per proteggere i numerosi stabilimenti di produzione del vino marsala di proprietà di imprenditori di nazionalità britannica. L'"Argus" e l'"Intrepid", questo il nome delle due imbarcazioni da guerra britanniche, di fatto protessero lo sbarco dei rivoltosi. Solo a sbarco avvenuto le navi napoletane effettuarono uno sterile bombardamento dei moli che si protrasse sino a notte, peraltro senza colpire alcun obiettivo, salvo le due navi dei garibaldini.
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Qui si fa l’Italia o si muore!
Il 14 maggio a Salemi a Giuseppe Garibaldi dichiarò di assumere la della Sicilia in nome di Vittotio Emanuele. I Mille, affiancati da 500 "picciotti", ebbero un primo scontro nella battaglia di Calatafimi il 15 maggio, contro circa 4.000 soldati borbonici. In un primo momento sembrava che le forze garibaldine fossero destinate alla sconfitta, tanto che Nino Bixio suggerì a Garibaldi la ritirata. Il generale, pare, rispose con le celebri parole: « Bixio, qui si fa l'Italia o si muore! ». Questa, almeno, è la versione data da Giuseppe Cesare Abba nel suo libro “Da Quarto al Volturno”. Invero le forze napoletane avevano già preso anche le insegne garibaldine, che indietreggiavano e stavano per disperdersi; ma poi improvvisamente le truppe napoletane si ritirarono, sottraendosi al conflitto. Una probabile spiegazione dell'improvviso ritiro delle truppe napoletane sta nella Fede di Credito di 14.000 Ducati che il Generale Francesco Landi, comandante di quei reparti, presentò all'incasso qualche tempo dopo. Lo scoprire che l'atto era stato alterato da 14 a 14.000 Ducati ne causò la morte nel febbraio 1861. Questa versione è stata però contestata dai suoi familiari. In seguito, aiutato dall'insurrezione di Palermo, tra il 27 e il 30 maggio, Garibaldi conquistò la città, difesa dall'ingenuo ed anziano generale Ferndinando Lanza che lo credeva attestato a Corleone. L'ingresso avvenne attraverso il Ponte dell’Ammiraglio, difeso da un intero battaglione borbonico, che credeva di essere in vigenza di tregua. Il preciso tiro di copertura garantito dai fucili di precisione dei carabinieri di Genova, unito alla spinta entusiasta dei Mille, valsero a superare le difese. Nei successivi scontri tra Porta Sant'Antonio e Porta Termini cadeva l'ungherese Luigi Turkory, mentre furono feriti, fra gli altri, Benedetto Cairoli, Stefano Canzio e lo stesso Bixio. Durante il mese di giugno, ai garibaldini si aggregarono altri volontari siciliani e provenienti da altre parti d'Italia, inquadrandosi in quello che poi fu chiamato esercito meridionale. Il 20 luglio le truppe borboniche vennero sconfitte nella battaglia di Milazzo, forse il primo combattimento realmente svoltosi in Sicilia. Nei giorni successivi, Giacome Medici ottenne dal generale borbonico Clay la neutralizzazione della fortissima cittadella di Messina e del suo numeroso esercito con, in soprannumero, la liberazione della città. Garibaldi aveva ottenuto così campo libero e i napoletani si reimbarcarono nel continente. « Splenda nella memoria dei secoli - l'epopea del 27 maggio 1860 - prepararta da cuori siciliani - scritta col miglior sangue d'Italia - dalla spada prodigiosa - di Garibaldi. - Riecheggi nella coscienza dei popoli - il tuo ruggito, o Palermo - sfida magnanima - a tutte le perfide signorie - auspicio di liberazione a tutti gli oppressi del mondo » (Mario Rapisardi, per il monumento dei Mille a Palermo).
Le operazioni sul continente
Con la neutralizzazione di Messina, Garibaldi iniziò i preparativi per il passaggio sul continente. Cavour esercitava fortissime pressioni per procedere subito ai in Sicilia, preoccupato che la benevola neutralità di Francia ed Inghilterra potesse rovesciarsi, inficiando le conquiste compiute. Più aggressivo si dimostrava, sicuramente, Vittorio Emanuele II, il quale incoraggiava il generale a passi decisi. Mentre forze borboniche attendevano lo sbarco garibaldino a Reggio, il 19 agosto Garibaldi prescelse un tragitto alquanto più lungo e sbarcò sulla spiaggia ionica di Melito Porto Salvo, in Calabria. Garibaldi disponeva, ormai, di circa ventimila volontari. In Calabria i borbonici non seppero offrire una dignitosa resistenza: mentre interi reparti dell'esercito borbonico si disperdevano o passavano al nemico il 30 agosto un'intera colonna, comandata dal generale Giuseppe Ghio, venne disarmata a Soveria Mannelli. Il re Francesco II abbandonò Napoli per portare l'esercito fra la fortezza di Gaeta e quella di Capua, con al centro il fiume Volturno, così, il 7 settembre, Garibaldi, praticamente senza scorta, poté entrare in città accolto da liberatore. Le truppe borboniche, ancora presenti in abbondanza ed acquartierate nei castelli, non offrirono alcuna resistenza, e si arresero poco dopo. In seguito avviene la decisiva battaglia del Volturno, dove Garibaldi respinse una grande avanzata dell'esercito borbonico (circa 50.000 soldati). La battaglia terminò il 1° ottobre (altri dicono il 2 ottobre). Nei giorni immediatamente successivi alla battaglia giunse il corpo di spedizione sardo, sceso attraverso le Marche e l'Umbria papalini (dove aveva sconfitto l'esercito pontificio alla battaglia di Castelfidardo), l'Abruzzo ed il Molise borbonici. Subito dopo (21 ottobre) si svolse un referendum per l'annessione del Regno delle due Sicilie al Regno di Sardegna, che diede uno schiacciante risultato a favore dell'annessione. È forse da notare il fatto che all'epoca i referendum erano chiamati plebisciti ed avevano sempre risultati scontati. L'impresa dei Mille si può considerare terminata con lo storico incontro tra Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II del 26 ottobre 1860 a Teano. Il 6 novembre Garibaldi schierò in riga, davanti alla Reggia di Caserta, 14 mila uomini, 39 artiglierie e 300 cavalli. Essi attesero molte ore che il Re li passasse in rassegna, ma invano. Il giorno successivo, 7 novembre, il Re faceva il suo ingresso a Napoli. Garibaldi, invece, si ritirò nell'isola di Caprera, dando avvio alla sua (non immeritata) fama di moderno Cincinnato.
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Da Quarto al Volturno
“Che la televisione sia ormai il maggior contenitore di spazzatura mediatica in circolazione, scriveva il Giornale del 6 marzo 2007, è una verità che non ha neppure bisogno di essere dimostrata”. “Certamente c'è televisione e televisione: se una trasmissione è volutamente popolare e ha l'unica ambizione di intrattenere un pubblico di bocca buona, cercare chissà quali contenuti culturali diventa pretenzioso e snobbistico. La questione invece cambia se un ente pubblico come la Rai trasmette una fiction del tipo «Eravamo solo mille» che lo scorso dicembre 2006 aveva la pretesa di ricordare l'epopea garibaldina con «un racconto per immagini - si leggeva a gennaio 2007 su La Stampa - che non solo è sciatto, dozzinale, impreciso e infedele, ma che soprattutto, in nome dell' "intrattenimento", è incapace di restituire la verità mitica del Risorgimento». I genovesi, ma non solo loro, si sono sentiti offesi da quella blasfema ricostruzione di un periodo che è stato tra i più eroici della storia italiana. Continua Il Gionale. A vedere quella ridicola commediola televisiva, sembrava che i Mille fossero un branco di analfabeti avventurieri, soprattutto nativi dell'Italia meridionale, che tornavano a casa per fare i conti con i nemici borbonici. La realtà era un po' diversa. Tanto per cominciare, i Mille non furono proprio Mille. Per essere esatti erano 1089 e la lista precisa, fornita dal Ministero della Guerra, fu pubblicata nel 1864 dal Giornale Militare quale risultato di un'inchiesta che era stata istituita dal Comitato di Stato per accertare con precisione chi partecipò alla storica spedizione. Si venne così a sapere che la maggior parte dei volontari erano lombardi (434), veneti (194), liguri (156), toscani (78), siciliani (71), stranieri (35). Pochissimi i piemontesi, che non arrivavano a una decina. Variegata, ma tutt'altro che bassa, la composizione sociale: 150 avvocati, 100 medici, 20 farmacisti, 50 ingegneri, 60 possidenti, circa 500 tra artigiani e commercianti. A bordo del «Piemonte» e del «Lombardo» solo una donna: la moglie di Francesco Crispi.
Nel nome di un’Italia Unita
Con la legge n.2119 del 22 gennaio 1865, ogni reduce ricevette la pensione e potè fregiarsi della medaglia che il Consiglio comunale di Palermo istituì il 21 giugno 1860. Gli autori della fiction non si sono presi neanche la briga di informarsi e di capire che cosa c'era dietro quella spedizione. Non si sono posti il problema di quei tanti giovani che, in nome di un'Italia unita, si imbarcarono in un'avventura che a molti di loro costò la vita. Certo che in un momento in cui questo Paese è diviso come non mai tra Nord e Sud, Centro e Nord Est, pochi si pongono il problema di quel sangue versato per un'ideale di nazione sovrana non soggetta al dominio straniero. Vediamo dunque di capire qualcosa di più su chi erano in realtà quei Mille giovani e, per farlo, facciamocelo spiegare dalle parole di colui che fu il primo artefice di quel periodo: Giuseppe Garibaldi. C'è, infatti, un'opera dell'Eroe dei due mondi, «I Mille», che è stata diffusa in pochissime copie e che venne pubblicata integralmente soltanto nel 1933 quando Donna Clelia Garibaldi regalò il manoscritto originale all'Archivio del Museo del Risorgimento. Di questo libro sappiamo che venne scritto dal generale tra il 1870 e il 1872, mentre risale al 21 gennaio 1873 la prefazione, sempre a firma di Garibaldi, «Alla Gioventù italiana». Il manoscritto venne rifiutato da vari editori per il contenuto piuttosto forte, soprattutto nei riguardi della Francia, e venne pubblicato in una prima versione nel 1874 in pochi esemplari, dagli editori Camilla e Bertolero di Torino, grazie all'aiuto economico di un gruppo di sottoscrittori. I loro nomi vennero elencati in ordine alfabetico in fondo all'opera. Il libro, dove Garibaldi non le manda a dire a nessuno ma affronta di petto tutti i suoi nemici, nasce dalle polemiche che in quegli anni fiorivano tra Mazzini e lo stesso Garibaldi. Non correva buon sangue tra i due, in particolare per le critiche che venivano rivolte da certi ambienti alla spedizione del 1860, un'impresa che già allora era considerata leggendaria dai contemporanei. Bisogna inoltre aggiungere che intorno al 1870 vi fu una recrudescenza dell'anticlericalismo in Italia, mentre la dottrina di Mazzini volgeva ormai al termine, nel senso politico del termine. Si presume che queste notizie venissero riportate a Garibaldi, in «esilio» nella sua Caprera, dal genero Stefano Canzio. E infatti il generale rispose con lettere aperte che ancora oggi sono notevoli per i loro contenuti storici. Tra l'altro cominciava a profilarsi all'orizzonte anche l'ideale socialista e Garibaldi ne prese parte affermando che l'Internazionale socialista gli sembrava una società perfetta «che ha l'audacia di voler la fratellanza di tutti gli uomini a qualunque nazione essi appartengono, che non vuole preti, non eserciti permanenti, non caste privilegiate». Ce n'era abbastanza per suscitare le reazioni dei benpensanti, dei monarchici e dei clericali che in quel vecchio generale, ormai prossimo a lasciare i dolori di questa terra, vedevano la sintesi di tutti i loro nemici. Garibaldi morirà a Caprera nel 1882 e quindi ebbe modo di gioire nel 1877 quando i bersaglieri entrarono dalla breccia di Porta Pia, segnando la fine dello stato pontificio e la riunificazione di Roma all'Italia. C'è da chiedersi che cosa avrebbe pensato se avesse potuto vedere l'Italia di oggi.
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Tra le tante idiozie della Rai
Una delle tante idiozie proposte dalla fiction Rai «Eravamo solo Mille», è stata la partenza da Quarto presentata come una specie di gita sociale di una ventina di persone, di giorno, da una spiaggia con la sabbia bianca. Peccato che nella realtà il fatto avvenne di notte e i Mille fossero suddivisi tra la Foce e Quarto, con il grosso del gruppo in attesa su quello che Garibaldi chiama il «promontorio di Quarto». Ma ecco le sue parole: «O notte del 5 Maggio, rischiarata dal fuoco dei Mille luminari, con cui l'Onnipotente adornò lo spazio! Bella, tranquilla, solenne di quella solennità che fa palpitar le anime generose, che si lanciano all'emancipazione degli schiavi! Io ti saluto! E vi saluto, o miei compagni giovani, oggi provetti e maggior parte mutilati o segnati con gloriosissime cicatrici». Il generale è un po' aulico e si commuove pensando a quella notte in cui lui e la sua «banda», come erano chiamati, trepidavano sugli scogli aspettando di vedere all'orizzonte i due vapori «Piemonte» e «Lombardo», partiti dalla vecchia darsena, oggi Porto Antico. «Eccoli! Eccoli! E maestosi s'avanzavano i due piroscafi, e i gozzi, già preparati, cominciavano ad imbarcare militi, armi, munizioni; e la gioia dei giovani volontari, che avrebbero voluto manifestarla almeno con un canto patriotico, era moderata dai più provetti con un "Per Dio! ci fermano se fate chiasso!". E quei prodi religiosamente tacevano, per non essere sviati dalla santa impresa!». Garibaldi si lamenta quindi del contrabbando fatto delle merci che servivano alla spedizione e che, per un soffio, non l'avevano fatta fallire. «E veramente la spedizione dei Mille fu compromessa da quel turpe mercato. E come non doveva essere? Essa doveva sbarcare su un'isola, i cui abitanti erano forse unici per patriottismo e per risoluzione. Ma la Sicilia non aveva meno di cinquanta mila scelti soldati, una squadra formidabile che ne difendeva le coste, ed i valorosi che s'erano innalzati contro il tiranno, decimati dai combattimenti e ridotti agli estremi. Approdar con tutto ciò senza munizioni da guerra e coi mille catenacci che la benevolenza governativa avea concessi, in sostituzione di 15 mila buone carabine, che erano di proprietà nostra e dal governo sequestrate!». Non sarà la prima volta che Garibaldi se la prende con Cavour e con i Savoia, arrivati al punto di sequestrare le armi nuove per evitare che si potesse dire che il governo avevano armato la spedizione. Il giorno dopo, il 6 maggio, i due piroscafi raggiunsero il porto di Talamone dove si trovava un deposito di munizioni. Per evitare uno scontro armato, Garibaldi usò uno stratagemma: si presentò nella sua divisa da generale dell'esercito sardo. Quando l'ufficiale di turno se lo trovò davanti, si mise sull'attenti e fornì senza fiatare le munizioni di cui la spedizione aveva bisogno. «Quel bonetto da generale agli occhi dell'Ufficiale veterano, ebbe un effetto stupendo e metarmorfosò in un momento il capo rivoluzionario in Comandante legale», racconta.
All’ora del rancio, tra risse e pazzi
Ad un certo punto sul «Piemonte», dove viaggiava il generale, nacque un alterco tra il maggiore Bassini e il tenente Piccinini, il primo di Pavia e il secondo di Bergamo. Era l'ora del rancio e gli altri erano fermi a guardarli mentre i due si dicevano di tutto. «Più curioso ancora - scrive Garibaldi - era osservare quella massa di giovani, fra cui molti studenti e professori, appartenenti a cospicue famiglie; osservarli dico, colla loro scudella alla mano, divorando cogli occhi la caldaja ed aspettando impazienti e silenziosi, che finisse la quistione tra i due veterani Ufficiali». La liti finì con un imprevisto quando uno dei volontari, che già aveva accusato problemi mentali, si buttò in mare per tentare il suicidio. «Il salvato dall'onde manifestò alcuni segni di pazzia e forse egli si gettò col proposito di raggiungere il Lombardo che veniva dietro il Piemonte; la freschezza del mare però, tornandolo a più savi consigli, egli mostrossi espertissimo nuotatore, lottando per ragiungere il palischermo che vogava alla di lui direzione». Successivamente, l'uomo tentò un'altra volta di uccidersi quando la nave arrivò in vista delle coste siciliane, e quella volta il nuovo tentativo mandò davvero in bestia il generale. E finalmente giunsero a Marsala. Garibaldi ricorda che i suoi furono subito aiutati dai marinai dei «legni mercantili» ancorati nel porto e che subito dopo il generale Turr marciò con una compagnia verso la città, dove i volontari furono accolti senza la benché minima resistenza. «Intanto i Mille sfilavano, coperti dal molo e poco curando una pioggia di granate e mitraglie, che il naviglio borbonico inviava a profusione e che per fortuna non cagionò feriti».
Calatafimi
E si arriva così al primo e fondamentale scontro armato, alla battaglia di Calatafimi, all'alba del 15 maggio, quando si decise concretamente quello che sarebbe stato il futuro della spedizione. I Mille, cui si erano aggiunti un buon numero di «picciotti» inviati dai fratelli Giuseppe e Stefano Triolo, baroni di Sant'Anna e dal possidente Giuseppe Coppola (denominati «Cacciatori dell'Etna»), erano ormai circa 2000. Di fronte si trovarono 3344 soldati borbonici comandati dal generale Landi, dei quali 2172 sul campo di battaglia e altri 1172 in retroguardia nel paese di Calatafimi. I borboni si assestarono su una collina chiamata «Pianto dei Romani, ove esiste la tradizione esser stati i Romani disfatti in quel sito dai Siciliani, collegati alla potente popolazione di Segeste, di cui si scoprono le ruine, non lontane al Settentrione». I garibaldini, invece, si posizionarono sul colle di Petralonga schierando i carabinieri genovesi in avanguardia. Dietro c'era il secondo battaglione agli ordini di Nino Bixio. Garibaldi e il tenente generale Giuseppe Sirtori ordinano un primo attacco a mezzogiorno e «i Napolitani sono ricacciati sull'altura a passo di corsa». E vi fu il primo caduto: «Comunque già i prodi Liguri avevano un morto e vari feriti». Alle 14 scatta il secondo attacco garibaldino con il maggiore Acerbi che conduce i suoi ragazzi e un piccolo corpo di squadriglie siciliane contro il nemico. Respinti, i napoletani si riuniscono nella seconda altura e da lì fanno fuoco, dall'alto verso il basso, contro gli uomini di Garibaldi. Ma l'impeto è inarrestabile. «Come foriero di vittoria, uno squillo di tromba nostra suonò una sveglia Americana e la vanguardia nemica, come per incanto, fermossi e forse i suoi capi si pentirono d'aver avanzato tanto. I Borbonici capirono di non aver da fare colle sole squadre e le loro catene cominciarono un movimento retrogrado. I Mille toccarono allora la carica, i carabinieri Genovesi in testa e con loro un'eletta schiera di giovani non appartenenti alle compagnie, ed impazienti di menar le mani. L'intenzione della carica era di fugar la vanguardia nemica e d'impossessarsi dei pezzi, ciocché fu eseguito con un impeto degno dei campioni della libertà Italiana; non però di attaccare di fronte le formidabili posizioni occupate dal nemico con molte forze. Però chi fermava più quei focosi e prodi volontari, una volta lanciati sul nemico? Invano le trombe toccarono Alto! I nostri, o non le udirono, o fecero i sordi e portarono a bajonettate la vanguardia nemica sino a mischiarla col grosso delle forze borboniche, che coronavano le alture».
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Ritiriamoci, ma dove?
La situazione era drammatica. I borbonici continuavano a bersagliare i garibaldini uccidendone a decine, ma questi salivano incuranti delle perdite verso la sommità della collina. Si arrivò al punto che Bixio suggerì a Garibaldi di ritirarsi. La storia ci ha tramandato che fu quello il momento in cui Garibaldi rispose: «Qui si fa l'Italia o si muore». Nella realtà pare invece che il generale avesse detto: «Ritirarci, ma dove?». E fedele al suo principio che quando si è iniziata una battaglia non bisogna mai mollare per nessuna ragione, Garibaldi ordinò il terzo e più violento attacco della giornata. Erano le 3 del pomeriggio. E i volontari garibaldini, armati di vecchi fucili che spesso non funzionavano neppure, stavano annientando un esercito di soldati professionisti e ben armati. «Mi fa ribrezzo il ricordarlo - scrive il generale- i catenacci con cui ci aveva regalato il governo sardo, ci negavano fuoco, e si scorgeva il dispetto sull'eroiche fisionomie di quei giovani, che spero prenderà ad esempio la generazione che segue, destinata a compiere l'opera santa. Qui pure fu grande il servizio reso dai figli della Superba! che, armati delle loro buone carabine, sostenevano l'onere delle armi. Tutti poi, corrispondendo all'intemerata risoluzione di andar avanti, finirono coll'affidarsi al freddo ferro delle loro bajonette». Fu l'inizio della fine del dominio borbonico sull'Italia meridionale. Da quel momento in poi, infatti, l'avanzata dei Mille, che presto si trasformarono in diverse migliaia con l'arrivo di altri volontari da ogni dove, portò all'unificazione del territorio italiano sotto il regno dei Savoia, completato più tardi con l'annessione del Regno Pontificio.
La camicia rossa
Un'altra stupidata della fiction è quella di aver dipinto i Mille con la camicia rossa dei garibaldini. Non era così, e lo testimonia lo stesso Garibaldi. «I Mille, vestiti in borghese, degni rappresentanti d'una nazione oppressa, assaltavano, col sangue freddo dei trecento di Sparta e di Roma, un nemico numeroso, di posizione in posizione e formidabile, ed i soldati della tirannide, brillanti di pistagne e spalline fuggivano davanti a loro». Quei giovani fecero la storia. «Calatafimi! - scriverà infine Garibaldi - Io, avanzo di tante pugne, se all'ultimo respiro i miei amici vedrammi sorridere l'ultimo sorriso d'orgoglio, esso sarà ricordando. Tu fosti il combattimento di popolo più glorioso!». Nella battaglia di Calatafimi persero la vita 41 garibaldini, tra i quali anche il camoglino Simone Schiaffino, 25 anni, timoniere del «Lombardo» e componente del quartier generale di Garibaldi, che l'analfabetismo storico degli autori Rai (quello sì, autentico) ha fatto passare per analfabeta. Schiaffino morì andando all'attacco con la bandiera dell'Italia in mano, trafitto da numerosi colpi. I feriti tra i garibaldini furono 126. I morti tra le squadre siciliane furono 6, una ventina i loro feriti. I borbonici lasciarono sul campo una trentina di soldati ed ebbero 62 feriti. Su quello stesso colle dove i volontari di Garibaldi sconfissero i borbonici, adesso sorge un monumento ossario dove sono conservati i resti di tutti quei giovani che donarono la vita per unificare l'Italia. Sarebbe bello che in questi giorni, celebrando i duecento anni dalla nascita di Garibaldi, qualcuno avesse un pensiero anche per loro.
Fonte Wikipedia e “Il Giornale”
Questa che abbiamo cercato di raccontare, servendoci in gran parte delle notizie di Wikipedia e di un articolo de “Il Giornale”, è uno dei primi capitoli che “Stampa, Scuole e Vita” vuole dedicare ai 150 anni dell’Unità d’Italia. Lo scempio che le “fiction” Rai gettano sulle “gesta” dei garibaldini è notevole. Basti assistere sul “piccolo schermo” alla proiezione della miniserie televisiva, “Eravamo solo mille”. La Rai, con i soldi del contribuente, che paga il canone e le multe, prende in giro la storia d’Italia. “Eravamo solo Mille”, dedicata allo spedizione dei Mille in Sicilia, è stata criticata per alcune lacune storiche, come l'appoggio della marina inglese, che impedì ai brigantini dei Borboni di intercettare le navi acquistate con regolare contratto dall’armatore Rubattino (nomen omen). Trasmesso da Rai Uno in due serate, in prima serata, il 14 e il 15 gennaio 2007, è stato replicato su Rai Storia - Rewind ieri, 10 maggio 2010, in occasione del centocinquantesimo anniversario della spedizione dei Mille. Inqualificabile, si può definire, l’intreccio di amori che si snocciolano nel “telefilm”. E poi, durante tutta la proiezione del filmato si sente parlare solo i dialetti meridionali, siciliani, ovviamente, napoletani, per forza, ma che centra il romanesco? Se il 90% dei mille erano del Nord Italia, com’è che non si sente nemmeno una frase in “bergamasco”? Certo, questo dialetto è poco diffuso nel nostro paese. Ma perché e su che basi storiche fanno passare il “garibaldino” romano in un “mariuolo”. “Roma ladrona”! E’ vero che “vox populi, vox dei”, per cui i soldati napoletani sono degli scansafatiche e un po’ ladri, che quelli romani sono gli spacconi e i raccomandati, i sardi quelli della testa dura, i milanesi “ghe pensi mi, so tutto mi”. Ma non è possibile che in un filmato che viene spacciato come storico si possa cadere così basso. Il “romano ladrone” che aveva fregato un libro al protagonista, alla fine si riscatta immolandosi al posto dell’attore principale e si scusa dicendo che l’aveva fatto per imparare a leggere! Ma se più dell’50% dei garibaldini era ignorante, perché mai hanno dovuto fare rubare un libro proprio a un romano? Per non parlare della figura barbina che fanno fare al Re Francesco II, “tagliato” come un ignorante, un incompetente, insomma un terrone. La fiction è stata criticata anche dal Movimento Neoborbonico per gli errori storici (per esempio non erano solo mille quelli che conquistarono il Sud Italia ma erano molti di più, circa 50.000 soldati combatterono infatti contro i borbonici nella decisiva Battaglia del Volturno) e per l'immagine negativa che ne esce dei borbonici, che nel film tagliano mani e piedi ai prigionieri.
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Garibaldi, la mafia e la camorra
Garibaldi, Bergamo (foto di Roberto Maurizio)
Il Presidente del Movimento Neoborbonico De Crescenzo si è lamentato della fiction: « Macché mille e mille! Basta con questa retorica romantica. La conquista del Mezzogiorno da parte di Garibaldi venne realizzata da cinquantamila uomini [...] Basti pensare che già pochi giorni dopo lo sbarco in Sicilia le truppe garibaldine raggiunsero le quindicimila unità. La spedizione, infatti, vide la massiccia partecipazione di soldati piemontesi "casualmente" disertori o congedati dal loro esercito. Ma notevole fu anche il contributo non solo economico ma anche di uomini e mezzi fornito a Garibaldi dall’Inghilterra e dalla massoneria britannica. [...] Garibaldi fece accordi consistenti con la mafia in Sicilia e con la camorra a Napoli. E non si tratta di illazioni, ma di dati riferiti da Gigi Di Fiore, esperto di cronaca giudiziaria del Mattino, che ha recentemente scritto un libro sulla storia della camorra. Anzi la prima collusione vera tra potere politico pubblico e malavita organizzata avvenne proprio durante lo sbarco dei garibaldini. [...] Un passaggio dello sceneggiato molto triste e squallido è stato quello riguardante le torture inflitte dalla polizia borbonica ai prigionieri. Addirittura nella prima puntata si è fatto riferimento al fatto che venissero tagliati piedi e mani. Tutto si può dire sulla polizia napoletana, ma è assurdo che i borbonici siano stati dipinti come dei barbari che praticavano le mutilazioni nei confronti dei nemici [...] Più che per le offese e le accuse ai sovrani del Regno delle Due Sicilie, accuse che tra l’altro oggi gran parte della storiografia ritiene assolutamente esagerate e fuori luogo, quello che duole maggiormente è l’immagine offerta dallo sceneggiato di un Mezzogiorno cattivo, vigliacco e sadico».
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