2 ottobre 2007

La Cornacchia

La Cornacchia

di Roberto Maurizio

Da anni, sbadatamente, osservavo il volo di cinque o sei uccelli scuri che danzavano con tanta grazia sulle antenne dell’edificio dell’Anas, proprio davanti alle finestre di casa mia. Mi piaceva fissare, soprattutto durante le giornate ventose, il loro ballo spettacolare che somigliava proprio a una vera “quadriglia”. Poi, l’oblio.
Finché, alla fine di aprile di tre anni fa, scendendo dalla macchina parcheggiata sotto un platano (in realtà erano due platani “abbracciati” così stretti fra di loro che l’occhio distratto di un passante memorizzava in una sola figura), vidi un grosso uccello grigio scuro che stava costruendo un nido, infischiandosi di tutto.
La curiosità fu tanta che salii in fretta le scale e mi collegai ad Internet. “Che uccello mai sarà? A che ordine e a che famiglia appartiene?”. Le risposte, come al solito, tardarono a venire. Finalmente, dopo altri tentativi, attraverso Google, scoprii che quell’uccello grigio nero altro non era altro che una "volgare" cornacchia, una discendente di quei raffinati uccelli che volteggiavano dolcemente sulle antenne dell’Anas.
Vederli prima da lontano nel loro habitat, poi da vicino mentre costruiscono il nido e, dopo, pixel per pixel, sul monitor del computer, contrastava con la scoperta del nome che gli esseri umani hanno voluto attribuire a questo, non dico bellissimo, ma nemmeno cesso di uccello: cornacchia.
Mentre la coppia si stava costruendo un “lussuoso” nido, mi venne in mente di dare un nome ai futuri “genitori”. Ma come si fa a distinguere il maschio dalla femmina? Decisi di chiamarli, dopo essermi a lungo consultato con mio figlio (in realtà un po’ recalcitrante), Sosa e Susa, tutte e due con la a finale, ma il primo con la o iniziale e la seconda con la u. La o è maschio e la u è femmina. Mbè, un discorso (definiamolo così) un po’ attorcigliato. Mentre cercavo un nome agli uccelli, mi assalirono i ricordi assopiti della mia infanzia. Ricordai, distintamente, quando un ragazzo un po’ malvagio nell’aspetto, ma tanto buono interiormente, praticamente oggi si chiamerebbe un bullo, portava a spasso, legata alla zampa destra con una corda, “a curnacchiue” (dialetto molisano). Effettivamente, il “portamento”del volatile sul terreno non era molto aggraziato, visto che gli erano state mozzate le ali. Ma il “bullo” parlava bene dell’ex “pennuto”: “sa pure parlare… è intelligente e fa ciò che gli ordino di fare”. Ricordo, vagamente, che era un’usanza abbastanza diffusa in paese tenere cornacchie in casa, soprattutto in certe realtà non proprio agiate, ad esempio, a Mezzaterra (nomen omen).
Mi chiesi allora, come mai uno della mia età, con un certo grado di istruzione, non sappia attribuire un nome alle cose (animali, alberi, monti, laghi, fiumi, ect.) che vede e che lo circondano quotidianamente? Eppure sa distinguere la foca monaca dal pinguino, il cammello dal dromedario, il coccodrillo dall’alligatore e quant’altro. La colpa non sarà mica della National Geographic , di Quark o di Superquark, che ci inondano di notizie sugli animali esotici, africani, asiatici, americani, del Polo Nord e del Polo Sud, e poi si dimenticano della cornacchia?
Si sa che gli “inglesi” non sono come gli italiani. La Rai, come è stranoto, non è la BBC. Ho visto molti reportage della televisione britannica sugli animali del loro “cortile”. Ma, già, il “cortile” è provinciale. Non voglio avanzare richieste esasperate di federalismo bossiano, ma, vivaiddio, esiste anche la cornacchia!
Nelle foto: (in alto) Un esemplare di Corvus Corone Cornix; (a metà) Susa che costruisce il nido; (in basso) Sosa che fa la guardia mentre Susa nidifica.
Fine prima puntata

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