30 gennaio 2008

Diciamo che...

Diciamo che…
di Roberto Maurizio


Nella misura in cui...

Let’s say… I suppose. Tutto iniziò con “nella misura in cui…”, seguito da “cioè”, per arrivare a “diciamo che”. L’intercalare rappresenta una pausa di riflessione che serve per riempire una frase, di solito senza senso, che non scorre. E’ un momento per raccogliere le idee. Quanti più sono i “diciamo che”, tanto più incomprensibile è il discorso che si sta pronunciando. Gli americani, intesi come cittadini degli Usa, si avvalgono dell’houm (aaaammmm) che ti dà un ciclopico fastidio solo a pensarlo un minuto prima (vedrai che dirà… houm). I francesi con il loro “bon”, gli inglesi con “I thing ” e via di seguito. Nell’intercalare si nasconde la cultura di chi pronuncia la pausa.

La pausa di semicroma

In musica, esistono diverse pause, ma ognuna è correlata con la sequenza matematica con la quale è stata concepita. La pausa musicale fa parte del contesto. La pausa è musica.

Pause intollerabili

Le pause verbali, invece, quando diventano ossessive, rappresentano la cattiva coscienza di chi le sta declamando.

La Guzzanti e Holunder

Diciamo che… è stata inventata, secondo me, da Massimo D’Alema o dalla sua imitatrice Sabina Guzzanti. La pausa verbale è passata di bocca in bocca, da un diessino all’altro, da un ulivista all’altro. E adesso sarà eredità dei pdisti.
Senza esagerazione, una devota diessina, ulivista, e adesso sicuramente pdista, che è stata acerrima nemica di Holunder, è riuscita a emettere questo incomprensibile suono per ben 50 volte in 5 minuti. Diciamo che… è stata brava! Poteva andare peggio…

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