20 dicembre 2009

Copenhagen. Troppi galli a cantare

Copenhagen. Nulla di nuovo sul copione
di Roberto Maurizio


Il bicchiere mezzo vuoto
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Mi occupo di Vertici, Summit, Meeting, Incontri internazionali, Conferenze mondiali, Tavole rotonde, Dialoghi promossi dall’Onu, da più di 30 anni e non mi ricordo di aver brindato subito dopo la fine di una di queste Riunioni. I commenti sono sempre stati gli stessi: “fallimento”, “il bicchiere mezzo vuoto”, “le aspettative sono state deluse”, “il bastone e la carota”, “rinvii a tempi più adeguati”. Molto di rado si è assistito a un’esplosione di gioia per l’accordo raggiunto all’unanimità. Quindi anche il Vertice sul Clima di Copenhagen non poteva fare eccezione. Certo mettere d’accordo i 193 paesi presenti al 15° Meeting della “Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici” (Unfccc: United Nations Framework Convention on Climat Change) nella capitale Danese dal 7 al 18 dicembre 2009, rappresentati da 100 Capi di Stato e di Governo e più di 45.000 richieste di accredito, era un’impresa oltremodo difficile. Troppi galli a cantare! E ogni “gallo” ha un voto! “One Country, One Vote”, è il motto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Ma “Copenhagen” non poteva fallire trascinando così il discredito sui suoi prestigiosi protagonisti.
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Salvare la faccia

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Quindi la faccia è stata salvata, facendo sì che, alla fine, è emersa una formula che ha esaltato i pochi progressi e ha decisamente mascherato, a fatica, i molti fallimenti. Le previsioni, fin dall’inizio della Conferenza, non erano buone. La presenza fisica di Obama non è riuscita a trasformarsi un “pacco dono natalizio”. Anzi. Gli incontri-scontri del G2, Premier americano e Primo Ministro cinese Wen Jiabao (il Presidente, Hu Jintao, prudentemente è rimasto a Pechino) sono riusciti a sbloccare un modesto compromesso con l’apporto anche di India, Brasile e Sudafrica. Ha così preso corpo un’intesa politica che agli impegni vincolanti sostituisce le buone inten¬zioni, ma lo fa nel mo¬do meno credibile, evitan¬do persino di citare il sem¬pre ripetuto obiettivo di dimezzare le emissioni di CO2 entro il 2050. Tra i paesi ricchi ognuno farà quel che vorrà su base nazionale o di gruppo (come l'Europa). L'intento fondamentale, quello di contene¬re entro 2 gradi l'aumento della temperatura rispetto all'era preindustriale, è sopravvissuto a fatica. Ma, forse, soltanto per evitare che Copenaghen facesse meno del G8 dell'Aquila.

Fondamentalismo ambientalista

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La rissa continua del Bella Center e i suoi insoddisfacenti risultati offrono alcune indicazioni. La prima è che il fondamentalismo ambientalista, per quanto giusto e sostenuto dalle indicazioni scientifiche, diventa controproducente quando deve calarsi nella realtà degli interessi economici e politici. Non si tratta certo di sospendere la battaglia, ma è necessario, se si vuole progredire sul serio, individuare metodi negoziali diversi e non arrivare, come è colpevolmente accaduto a Copenaghen, con tutti i dossier tecnici in alto mare e le sensibilità nazionali al culmine dell'esaltazione. Poi c'è il tanto temuto G2 cino-americano. Un Obama vincolato dal Congresso ha fatto a braccio di ferro con il premier cinese ma alla fine è con lui che ha trovato l'intesa. Copenaghen ha confermato che Usa e Cina non sono più insensibili al tema del clima. Ma si può star certi che la genericità degli accordi sui tagli delle emissioni e ancor più l'assenza di vincoli legali rappresentino per loro, che sono i più grandi inquinatori del mondo, due otti¬me notizie. Gli Usa hanno le elezioni permanenti, la Cina deve continuare a cre¬scere.

Una “dichiarazione glaciale”




Il generico accordo politico sul clima, firmato il 18 dicembre 2009 dal Presidente americano Barak Obama e dai rappresentanti di Cina, India, Brasile e Sudafrica, pure se, fra proteste e delusioni, è stato adottato all’unanimità dai 193 paesi partecipanti al Summit climatico delle Nazioni Unite, lascia irrisolti i principali problemi sul tappeto della trattativa climatica globale. A questo punto, come si svilupperanno, nell’immediato, le azioni internazionali per la riduzione dei gas serra? La prima questione urgente in sospeso è cosa farne del Protocollo di Kyoto, che scade nel 2012: Copenaghen, infatti, era considerato l’ultimo appuntamento utile per decidere se reiterarlo, innalzando gli impegni di riduzione dei gas serra, attualmente bloccati su una striminzita media del 5,2%. Ma nella capitale danese è apparso evidente che pure Obama, come già Bush, non vuole o non può fare entrare gli Usa nei meccanismi di Kyoto, iscrivendo gli annunciati programmi di riduzione delle emissioni americane all’interno di una «fase due» del Protocollo (dal 2012 al 2020). Se accettato dalla nuova amministrazione democratica Usa, l’avvio della «fase due» del Protocollo di Kyoto avrebbe rappresentato la strada più agevole e rapida anche per la maggior parte delle altre macro aree mondiali: gli europei che, fin dall’inizio, hanno strenuamente sostenuto e difeso il vecchio trattato climatico; i Paesi in via di sviluppo a cui sono stati riconosciuti il sostegno economico e le esigenze di crescita; la Russia e l’Est Europa che possono fa valere crediti di emissioni ereditati dal crollo economico del blocco sovietico. Inoltre, essendo Kyoto un trattato già legalmente valido, in quanto a suo tempo ratificato dai parlamenti nazionali dei Paesi aderenti, un suo prolungamento avrebbe evitato rallentamenti o, peggio, interruzioni nei processi di riduzione dei gas serra.


Dopo il flop




Dopo il flop di Copenaghen, Kyoto resta senza futuro e, se non si correrà ai ripari convocando una conferenza straordinaria delle Nazioni Unite entro la prima metà del 2010, tutto il complesso sistema dei vincoli, dei controlli internazionali, dei commerci di quote di emissione e dei programmi di assistenza tecnologica ai Paesi in via di sviluppo, rischia una battuta d’arresto. Il vertice di Copenaghen aveva lasciato intravedere un’altra prospettiva: la possibilità di sostituire Kyoto con un trattato di più ampio respiro, più flessibile, e quindi più gradito ai Paesi che mal sopportano l’attuale e farraginoso sistema dei vincoli e dei controlli. Un patto climatico ex novo, fra l’altro, eviterebbe agli Usa l’imbarazzo di dovere rientrare in Kyoto ammettendo, implicitamente, l’errore di esserne usciti nel 2001, dopo l’avvento di Bush. Alla costruzione di questo possibile, nuovo patto, aveva lavorato assiduamente per due anni un gruppo di lavoro formato dai rappresentanti di tutti i Paesi del mondo che, nella capitale danese, ha presentato una bozza di testo da completare con l’inserimento dei target di riduzione e delle cifre dei finanziamenti ai Paesi in via di sviluppo. Ma Obama e cinesi, che a Copenaghen hanno condotto i giochi, invece di impegnarsi per il successo dell’una (Kyoto 2) o dell’altra (nuovo Protocollo) soluzione, hanno preferito la via di fuga dell’accordo politico di facciata, che trascura del tutto gli obblighi immediati e affida la salvezza dell’atmosfera alla buona volontà dei governi futuri. Ora, per salvare il salvabile, si parla di una Cop 15 bis da tenere a Bonn, forse nel prossimo mese di giugno. Il cancelliere tedesco Angela Merkel starebbe già lavorando a una soluzione di questo tipo, cui sarebbe affidata la difficile impresa di ricucire gli intricati fili della trattativa rotti a Copenaghen e condurre in porto un’ipotesi operativa di patto climatico entro la Cop 16 in programma a Città del Messico alla fine del 2010.

Le foto sono dell'Ansa. Svp, citare la fonte

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